Alle risse in TV ci eravamo abituati. Alle risse tra giornalisti sui social network ancora no, e ne avremmo fatto volentieri a meno. Si sa che nel pollaio più di un gallo non può esserci e, siccome ciascuno di questi eroi si crede l’unico deputato a ingravidare tutte le galline dell’informazione, il risultato è bell’ e pronto. Non c’è da stupirsi: il giornalismo è mutato da veicolo di fatti e opinioni a oggetto di egotica ammirazione mediatica. È il populismo giornalistico, fatto di “aerostati evoluti gonfiati dall’informazione”, come cantava Giorgio Gaber in Il conformista. Capintesta ne sono proprio i giornalisti da social network, pressoché sconosciuti sui giornali ma popolarissimi nelle piazze virtuali. A queste rockstar del giornalismo italiano si adatta la domanda rivolta a Carmelo Bene da D’Agostino: sono finte o tinte? Nel caso del più famoso tra costoro, entrambe le cose.

Quello dei social network è un mondo parallelo in cui vigono regole che nel mondo reale, vis à vis, non sono accettate. Vi si dicono cose che di persona nessuno sognerebbe di dire e vi si costruisce spesso un alter ego posticcio e kitsch che sarebbe ridicolo fuori di lì. I social network hanno trasfigurato, per non dire violentato, i modi della comunicazione di cui la modernità ci ha fatto dono. Anche la più irriverente, la più scalcagnata e perfino sovversiva, muovono da un humus di intelligenza, stile e riflessione. D’un tratto invece abbiamo visto nuovi banditori dominare le piazze virtuali, animati da una protervia fuori dal comune, drogati di visualizzazioni come cavalli da ippodromo di provincia. L’humus che li nutre è tutt’altro che l’intelligenza: è la semplice visibilità, prodotto merceologico della vanità e bene capitale di quella che Herbert Simon ha definito economia dell’attenzione, motivo per cui è necessario spararla sempre più grossa e sempre più spesso.

Un eccesso di informazioni ci lascia con un deficit di attenzione

Herbert Simon

Una fauna prima sconosciuta è assurta ad apice della catena alimentare dei social network, dove il cibo è fatto di visualizzazioni, likes, commenti e condivisioni. Questa fauna è composta da chi ha fatto dei social un mestiere e da chi li usa come cassa di risonanza per ciò che fa altrove. Tra questi spicca una categoria, caratterizzata non per quel che fa ma per come lo fa: il mitomane, colui che crede di essere una spanna superiore a tutti. Esistono due famiglie di mitomani: chi ha molto seguito sui social e pensa dunque di essere il più amato e influente e chi, al contrario, ha scarsissimo seguito e percepisce questo fallimento come la prova della sua immensa qualità, accessibile a pochi eletti. A seconda dei casi, vi sono poi due specie di mitomani, che chiameremo il dimesso e lo sfacciato: il primo posta dieci volte al giorno ma fa finta di non badare alla sua popolarità, il secondo invece non perde occasione per sbatterti in faccia il suo successo e il numero dei suoi seguaci, come fossero trofei di caccia. Ciò che accomuna tutti i mitomani è un’ipertrofia dell’ego smisurata, che ha del patologico ed è molto singolare, giacché questa patologia paga in contratti, collaborazioni e pubblicità.

Ciascuno di noi, è inevitabile, ha in mente dei mitomani da social network. La pagina Facebook Io, professione mitomane ne ha composto una galleria degli orrori, mostrando come le parole di questi mitomani suonino assurde e raccapriccianti in un contesto normale. Alcuni li seguiamo pure, con simpatia o indifferenza, magari soltanto per vedere la loro sparata del giorno mentre siamo seduti in metro o, più prosaicamente, in bagno. Però si dovrebbe prestare attenzione, poiché si contribuisce ad alimentare una distorsione non indifferente. Infatti, secondo la Treccani,

“La mitomania è la tendenza a mentire e ad accettare come realtà, in modo più o meno volontario e cosciente, i prodotti della propria fantasia. Nel bambino normale, entro certi limiti, il fenomeno è frequente come alterazione della realtà dovuta soprattutto al prevalere dell’immaginazione […]. Nell’adulto, e talora anche nel bambino, ha invece significato patologico, come espressione di una personalità anomala, generalmente isterica, che, mediante la falsificazione della realtà e con racconti fantastici, cerca di attirare su di sé l’attenzione di quanti lo circondano allo scopo di soddisfare l’esagerata vanità e il bisogno di stima (pseudologia fantastica)”.

Ogni commento sarebbe superfluo. Prendendo a prestito un altro calembour di D’Agostino, i giornalisti mitomani non servono ma apparecchiano. Sono la punta di diamante della degenerazione culturale cui va incontro il pubblico discorso, le classiche persone mediamente informate di tutto e competenti pressoché in nulla, che fanno tante cose ma sempre a volo d’uccello, dispensando opinioni che sorgono non si sa bene da quale consapevolezza del mondo. Non ci sarebbe nulla di cui preoccuparsi, ché dopotutto se i mitomani esistono nella società fisica hanno diritto di esistere anche nei social network, se non fosse che la mitomania è particolarmente diffusa tra chi dovrebbe proporci qualcosa di molto serio e meditato.

La geografia giornalistica, come quella politica e anche letteraria, è ripartita in zone convenzionalmente distinte: il governativo, l’irriverente, l’intellettualoide, il progressista, il populista, l’agitatore, il rivoluzionario. Ciascuno occupa, secondo l’indole e la convenienza, uno di questi territori e lì cerca di imporsi come princeps, crogiolandosi in quel che egli stesso dice come chi emette una flatulenza e si compiace dell’orrido tepore che ha generato. Coloro che per primi hanno fatto dei social network l’arena politica e pubblicistica in cui lasciar strabordare il proprio ego e fare proseliti oggi la fanno da padroni. Ed è facilissimo riconoscerli, ciascuno nella propria rocca, inossidabili e imperterriti, mentre pubblicano opinioni spicce e raccontini fanciulleschi con cadenza quotidiana: quello che scrive andando a capo dopo ogni frase, quell’altro che abusa di fondotinta e fa dirette a suon di parolacce, l’indignata permanente per supposti diritti negati, il tardo-complottista sfigato e quello che va in giro a fare video per mostrare come la gente sia cattiva.

Se li si prende tutti insieme e si osserva a colpo d’occhio la loro produzione, risultano ridicoli, ciascuno imbullonato al ruolo che si è attribuito, ossessivamente impegnato a ripetere ogni giorno i medesimi concetti, nessuno dei quali è dirimente per capire il presente. Suscitano perfino tenerezza, convinti come sono che le sorti del mondo dipendano dal loro aneddoto edificante, dal loro post indignato o dalla loro diretta incazzata, finché non confondono, per ingenuità o malafede, questo servizio al loro ego per un servizio alla società. Diciamocelo finalmente: non se ne può più dello storytelling, dell’ossessione per il raccontino architettato per suscitare emozioni un tanto al chilo. Il mestiere del giornalista è il reperimento e il confezionamento di notizie, oltre che di analisi e commenti, ben altra cosa dall’issare a paradigma interpretativo dell’universo l’immagine distorta che il proprio ego riflette sulle cose.

È vero che quello del giornalismo è un mestiere che attrae mitomani e suscita mitomania, ma qui sorge il sospetto che quanto maggiore si fa la retroguardia del giornalismo, tanto preponderante diventa la gara sui social network. In altre parole, se i giornali ormai vengono letti quasi esclusivamente dagli stessi giornalisti e pagano malissimo, non resta che avventurarsi per le piazze virtuali alla ricerca di una fama e di una carriera personali che l’industria mediatica non promette più. Ciò è comprensibile e ammirevole, ma di qui a distorcere la realtà per piegarla alle esigenze del self-made journalism, che garantisce una fama che si consuma esclusivamente nel mondo virtuale, ne corre. Non è un caso se di nessuno dei giornalisti più famosi sui social network si ricorda un’inchiesta, un reportage, un’intervista, un libro o qualunque cosa che possa fare di un giornalista un gran giornalista. Giacché questi dovrebbe filtrare i fatti secondo le proprie impressioni invece di anteporsi ai fatti per raccontare sé stesso attraverso di essi. Anche perché, come rimproverava JepGambardella ne La grande bellezza, “tutte queste vanterie, tutta questa ostentazione seriosa di io, io, io, nascondono una fragilità, un disagio e soprattutto una serie di menzogne”.

Si profila dunque un nuovo tipo di giornalista: l’opinionista tuttologo che educa il suo pubblico attraverso i social network e si avventa a spiegare con disinvoltura tanto le leggi quanto i flussi migratori, la finanziaria, l’epidemia da coronavirus, la politica estera e financo il cambiamento ambientale. È il cantautorato applicato al giornalismo, la versione pop dell’informazione da presenzialismo scenico, fatta appunto di rockstar che se la suonano e se la cantano con contorno di frecciatine virtuali, in questo malsano mercato del giornalismo sbragato, dove la piccineria è virtù e il pressappochismo è dovere. Ciò che non possono più le pagine dei giornali, gli editoriali e i libri, lo possono le pagine Facebook, i post e le dirette, con buona pace della gerarchia delle notizie e della distinzione tra fatti e opinioni. Il giornalismo fatto con le suole diventa giornalismo fatto con le sole, farcito di sentimentalismo sociale, di personalismo aneddotico e autoreferenzialità. Il tutto imbastito con un linguaggio indegno, una sintassi da scuole medie e un vocabolario che non supera le trecento parole. Ma tutto questo produce visibilità, che a sua volta soddisfa la vanità e il bisogno di stima e riempie il portafogli dei mitomani. Allora non ci resta che dire: viva la visibilità!