I nostri diritti nell’emergenza

Tutelare la salute e insieme la privacy. Garantire la sicurezza dei cittadini, ma anche la loro libertà. La regolamentazione dei comportamenti umani del dopo pandemia è un percorso a ostacoli
di Luigi Manconi e Valeria Fiorillo
Il meccanismo psicologico è semplice. Vivere, come accade a tutti in queste settimane, una così quotidiana e inquieta esperienza della morte, sia direttamente che attraverso il coinvolgimento mediatico- emotivo, finisce col cambiare il nostro rapporto con la vita. Questa ci appare, oggi, come qualcosa di terribilmente concreto e tangibile. Accade, così che, durante questo periodo, un numero rilevante di persone abbia a cuore la vita propria e quella dei propri cari con un’intensità struggente e finora sconosciuta. Discende da questo il fatto che sia diventata formula ricorrente del discorso pubblico e della conversazione domestica l’affermazione: la salute prima di tutto. Chi per primo ha voluto mettere in discussione questo assioma è stato The Economist in un editoriale del 2 aprile scorso dal titolo A grim calculus (“Un calcolo crudele”). L’articolo del settimanale inglese solleva un tema di rilevante spessore etico. La vita, intesa come piena salute fisica, è sempre e comunque il bene più prezioso?
La risposta è indubbiamente sì. Tanto più che quello che abbiamo sempre dato per scontato e percepito come un sentimento di fondo e un principio presupposto ( primum vivere ) oggi ci appare come legge suprema, scolpita a lettere cubitali in tutte le forme della comunicazione, in tutti i messaggi istituzionali e in tutte le decisioni politiche. Fino a diventare il Senso Comune del presente. Il che è giusto, ovviamente, ma richiede piena coscienza di cosa comporta e dei costi che impone. Accertato questo, possiamo confermare il primato di quella legge – sì, la salute fisica è sempre e comunque il bene più prezioso – ma con maggiore consapevolezza. E con la certezza che i beni che accettiamo di sacrificare non hanno alcunché di superfluo, ma sono, al contrario, assai preziosi. E, dunque, guai se ce ne privassimo a cuor leggero, attribuendo loro un rango di permanente inferiorità rispetto al bene ritenuto prevalente (quello della salute appunto). Non si tratta di una gerarchia assoluta e astratta, bensì di una scelta imposta dall’urgenza del caso singolo. Non un ordine di priorità stabilmente fissato e cristallizzato, ma una decisione dettata dall’emergenza. Ed è, appunto, in una simile circostanza, che beni comunque essenziali e costituzionalmente protetti possono venire limitati. Ma questo non può mai prescindere da una un’attenta valutazione, anche in termini di analisi costi-benefici, dei beni sacrificati e di quelli tutelati. A partire da quel diritto irrinunciabile, rappresentato dalla libertà di movimento. Beni messi in discussione, tra l’altro, da una pretesa di disciplinamento che si traduce in dispositivi di iper-regolamentazione dei comportamenti umani, da modellare «attraverso atti d’autorità che aprono e chiudono, concedono e vietano, impongono e consigliano, disapprovano, esortano e raccomandano» (Gustavo Zagrebelsky, Repubblica 29 aprile).
Si pensi, poi, al grande tema del diritto alla privacy e a come esso potrebbe risultare insidiato dall’adozione di determinate strategie contro il contagio, come la app Immuni della software house Bending Spoons, destinata a ricostruire i contatti di chi risulta positivo. L’adozione di questo dispositivo è prevista per la fine del mese su base volontaria. Tuttavia il fatto che esso comunque incida in profondità nella sfera privata degli individui richiede un’attenta considerazione dei possibili rischi. Anche chi condivide l’opportunità di ricorrere a questo strumento non può ignorare i pericoli che esso comporta.
È storicamente accertato, infatti, che anche in sistemi pienamente democratici possono coesistere pratiche, settori o sottosistemi non democratici. D’altra parte, è innegabile che la legislazione di emergenza tende a stabilizzarsi, superando i limiti temporali della fase eccezionale. Per non parlare degli effetti che producono le misure speciali e il sacrificio di alcuni beni e diritti in nome dello stato di emergenza all’interno di democrazie fragili e di regimi attraversati da tendenze autoritarie. E allora fanno bene il giurista Gabriele Della Morte su Huffington Post (6 aprile) e lo storico Yuval Noah Harari, intervistato da questo giornale (15 aprile), a sottolineare come le misure che incidono sulla privacy, estendendo la sfera di controllo dello Stato, tendono a indebolire il sistema democratico, con il conseguente rischio di uno scivolamento verso un regime di sorveglianza di massa. Se, da una parte, il diritto alla privacy impone un obbligo negativo dello Stato di non interferire nella vita privata degli individui, dall’altra, la messa in atto del contact tracing avrebbe l’indubbio vantaggio di permettere quel controllo sui movimenti dei contagiati, considerato indispensabile per arginare la diffusione del virus. Ma allora occorre chiedersi che rapporto c’è tra i due diritti in gioco: conflitto irrisolvibile o possibile conciliazione? I giuristi Federica Resta e Oreste Pollicino su Agenda Digitale (24 marzo) hanno rappresentato quel rapporto in termini di conciliabilità, sottolineando che le misure – in conformità ai principi di temporaneità e proporzionalità – devono rispondere al criterio di gradualità, ovvero è necessario valutare se le disposizioni meno invasive siano sufficienti a raggiungere quella stessa finalità di prevenzione. Dopodiché sono arrivate le nitidissime parole della presidente della Corte Costituzionale, Marta Cartabia, nella sua relazione sull’attività della Consulta. Intervistata dal Corriere della Sera , ha precisato che tutte le limitazioni «devono sempre essere ispirate ai principi di necessità, proporzionalità, ragionevolezza, bilanciamento e temporaneità ». Tuttavia i pericoli per il buon funzionamento dello stato di diritto non si esauriscono in quanto finora detto. Nadia Urbinati su Huffington Post (18 marzo) ha paventato una pericolosa abdicazione della responsabilità statale in favore della responsabilizzazione del singolo per la protezione del diritto alla salute di tutti. Sullo sfondo emerge la sottilissima e insidiosa tendenza a sacralizzare la vita in quanto tale: la vita nella sua dimensione biologica, intesa come salute fisica. Il bene in nome del quale sacrifichiamo altre libertà è, infatti, quello della salute intesa come assenza di patologie e malattie del corpo, cioè buona esistenza fisica. Ma si deve notare che nel concetto di diritto alla salute, così come interpretato dalla dottrina giuridica, rientra anche la salute mentale. Nel caso specifico, l’equilibrio psichico dell’individuo costretto in una dimensione (la quarantena) che gli era del tutto estranea, dominata dallo sfilacciarsi dei rapporti sociali; e dalla necessità di riorganizzare la propria routine, di intrattenere relazioni diverse con i membri del proprio nucleo familiare, di misurarsi con il tempo vuoto e quello della solitudine.
Tutto ciò rientra nei costi ineludibili di una strategia di difesa dell’incolumità collettiva, che è stata oggetto dello studio dell’antropologo Didier Fassin, in Le vite ineguali (Feltrinelli). Le ricerche di Fassin tendono a dimostrare che i governanti di tutto il mondo adottano politiche destinate a tutelare l’esistenza fisica e gli aspetti biologici, trascurando, tuttavia, la dimensione sociale e politica della stessa. Ciò è causa nel lungo periodo di un aumento delle disuguaglianze sociali ed economiche. Di conseguenza, la crescita delle sperequazioni finisce con l’incidere su quel bene, la vita fisica e la sua salute, che nelle intenzioni si voleva privilegiare, in un circolo vizioso che porta ad un acuirsi della crisi. E così Fassin sembra aver intuito quanto sarebbe potuto avvenire con l’epidemia e con il dopo epidemia. Lo schema si ripete; e davanti ai nostri occhi, finora bendati per eccesso di presunzione, aleggia il fantasma della depressione economica. (Non a caso un termine – depressione – mutuato dalle discipline della psiche).
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