Tocchiamo subito un tema scottante, quello dell’accoglienza, che prima dello scoppio della pandemia ha infiammato il dibattito politico e spaccato l’opinione pubblica in due feroci schieramenti. Tante ne sono state dette e ancora oggi il problema “migranti” continua a generare forti polemiche. In un mondo ideale non esistono più le frontiere, sono stati deposti gli inutili nazionalismi, ognuno è finalmente libero di vivere dove più gli piace, le tasse sono eque, i servizi funzionanti, le guerre uno sgradevole ricordo. Alla retorica dell’odio, della violenza, della sopraffazione, dello sfruttamento, dell’insensata competizione tra nazioni gli uomini hanno finalmente opposto i valori della fratellanza, della pace, del rispetto, della dignità, della convivenza pacifica.
Tutto giusto, ma noi non viviamo nel “meilleur des mondes possibles”: la tassazione è iniqua, le differenze culturali marcate, i muri apparentemente invalicabili. Cosa c’entra però con il mito dell’accoglienza?
Forse se ci scrollassimo di dosso l’ipocrita facciata che tentiamo disperatamente di mostrare, saremmo costretti a riconoscere l’ovvia verità. Troppo a lungo il nostro sguardo è stato offuscato da altisonanti parole e nobili propositi di “fusione culturale”, troppo a lungo siamo stati irretiti dalla retorica di una politica interessata a mostrare alle telecamere la sua nobiltà d’animo, la sua integrità morale, arraffando a piene mani, quando i riflettori erano spenti s’intende, i generosi fondi stanziati dall’Unione Europea al nostro paese, che si è fatto carico, in modo del tutto disinteressato, dei migranti. Uno sguardo concreto alla realtà odierna avrebbe mostrato un territorio funestato da innumerevoli problemi, afflitto da una pesante depressione economica, un territorio incapace di offrire ai suoi stessi cittadini servizi equi e funzionanti (il recente collasso del sistema sanitario è soltanto la punta di un iceberg, o meglio del letamaio nel quale sguazziamo), territorio che non può permettersi di accogliere indiscriminatamente milioni d’individui bisognosi di alloggi, posti di lavoro, risorse e aiuti.
Prendere atto di questa realtà, non significa gioire machiavellicamente, quando una nave di migranti s’inabissa a largo delle nostre coste, innalzare agghiaccianti muri della vergogna o semplicemente, con abietta indifferenza, smettere di prestare soccorso ai disgraziati che solcano il Mediterraneo in cerca della terra promessa. Deve pur esistere un equilibrio tra lo stendere il tappeto rosso a chiunque cerchi asilo e il non fare nulla.
Il secondo mito da ridimensionare è quello della cultura: la cultura nobilita, la cultura arricchisce, la cultura è salvifica; la cultura, per molti intellettuali e pseudointellettuali, è in effetti la grande panacea a ogni male del mondo. Povertà, diseguaglianze economiche, corruzione, omicidi, stupri, guerre, ogni tipo di violenza e di male esistente sulla terra deriva la sua ragion d’essere, la sua causa primaria nell’assenza di cultura. Ma cos’è questa cultura, termine invero dalle mille sfaccettature semantiche, di cui tutti parlano, questa cultura ostentata come un fiore all’occhiello, da chi, conscio della pochezza e della scarsità contenutistica dei propri discorsi, si rifugia nel porto sicuro della retorica trita e ritrita della cultura/ricchezza/interiore. Anche l’epoca hitleriana aveva una sua cultura; tra le élite andavano di gran moda le teorie espansionistiche del politologo Haushofer e del geografo Ratzel, che teorizzò la necessità per una nazione di avere uno “spazio vitale”, teoria che supportò la perversa politica di conquista del nazionalsocialismo. Ogni cultura è radicata nel proprio tempo; la buona arte riflette (della pessima arte, così diffusa al giorno d’oggi, non parleremo) i conflitti, i contrasti, le problematiche e i tormenti della propria epoca. I dipinti del Caravaggio, un sonetto di Shakespeare, un romanzo di Dostoevskij hanno un significato in rapporto alla loro epoca; perché ne riflettono i travagli interiori.
Le disquisizioni teologiche dei padri della chiesa (tema di grande successo tra gli intellettuali dell’XI secolo), i precetti minuziosi apparsi nel Galateo di Giovanni della Casa sull’atteggiamento, i modi, il vestiario del perfetto cortigiano, perfino le struggenti immagini dell’inferno dantesco o i tragici versi dell’Orlando Furioso, celebrazione e critica di un mondo cavalleresco ormai in declino, non entrano in sintonia con la nostra sensibilità, non scuotono le nostre coscienze, perché non toccano temi che sono a noi famigliari, attuali. Ma allora a quale tipo di cultura dobbiamo fare riferimento?
Bisogna disabituarsi e smettere di concepire la cultura come sapere enciclopedico, il cui l’uomo non è visto se non sotto forma di recipiente da stivare di dati empirici; di fatti bruti e sconnessi che egli poi dovrà casellare nel suo cervello come nelle colonne di un dizionario per poter poi in ogni occasione rispondere ai vari stimoli del mondo esterno. Questa forma di cultura è veramente dannosa. Serve solo a creare degli spostati, della gente che crede di essere superiore al resto dell’umanità perché ha ammassato nella memoria una certa quantità di dati e di date…
Antonio Gramsci
Ciò che Gramsci criticava aspramente era il vuoto intellettualismo, l’erudizione fine a se stessa, l’accademismo così diffuso nelle nostre università. L’eccesso di erudizione è il grande male della nostra epoca, schiacciata sotto il peso di una storia e di una letteratura plurimillenaria. Nel divorare con indecente voracità tutto ciò che è stato scritto, pensato, detto, c’è una mancanza di discernimento, ma anche l’assenza di una visione, di uno scopo che ci orienti nella selezione degli autori da leggere e in quelli da scartare.
La ricerca intellettuale non deve mai essere fine a se stessa, al contrario l’arte, la filosofia, la letteratura acquisiscono un significato, soltanto quando rispondono ai bisogni esistenziali di un individuo, quando la ricerca è intrapresa con uno scopo ben preciso: trovare delle risposte ai problemi che affliggono l’Io e la società. Problemi specifici che necessitano di risposte altrettanto specifiche. Di un generico minestrone culturale, come quelle propinato nelle scuole e purtroppo anche nelle università, non sappiamo davvero che farcene.
L’ultima stoccata vogliamo darla alla “degenerazione dei tempi”, mito intramontabile e drammaticamente attuale. Nutriamo la convinzione di vivere in tempi molto corrotti; ci ripetiamo che la nostra società è frivola, vuota, superficiale e ingorda, (colpa del capitalismo e del consumismo dilagante, la bestia nera del XX secolo). Gli uomini non hanno più valori in cui credere, la famiglia si sta disgregando, la letteratura sta esalando il suo ultimo respiro; perfino la Chiesa, istituzione secolare sopravvissuta a due millenni di peripezie, atroci guerre, aberranti dittature, ha chinato umilmente il capo ed è stata costretta ad ammettere la tiepida e circostanziale devozione dei suoi fedeli.
Egocentrismo, immoralità, vanità, ecco il ritratto dell’uomo del XXI secolo. Ma è davvero così? Viviamo davvero nell’epoca più tragica, più corrotta e vuota della storia? Già Giovenale (caustico poeta latino del I secolo d.C.) lamentava nelle sue satire l’immoralità dei suoi tempi; e qualche secolo più addietro, l’Inflessibile, l’Incorruttibile Catone è divenuto celebre per i suoi roboanti sermoni contro la corruzione dilagante, l’avidità sfrenata, la pochezza morale della sua epoca, (oggi diremmo nichilista). Il mito della degenerazione dei propri tempi è un leitmotiv caro all’umanità, che ama cullarsi nella visione di un glorioso passato in cui la vita era più dolce e tutto andava bene. Di secolo in secolo, di epoca in epoca, attraversando gli anni bui del Medioevo fino all’età dei lumi; poeti, filosofi e intellettuali, disgustati dalla prosaicità dei propri tempi, vagheggiarono una mitica epoca dorata, nostalgici di un passato che in fondo non è mai esistito. Rousseau immaginò che il “buon selvaggio” possedesse quelle virtù (onestà, bontà, sincerità) di cui i suoi contemporanei erano tragicamente carenti. Il filosofo ginevrino attribuiva i mali della sua epoca alla malsana vita di società, una civilizzazione spietata che ha reso l’uomo cattivo e malato, perfido di un’abietta perfidia, la perfidia di un uomo del sottosuolo per l’appunto.
Se le conclusioni di Rousseau nella loro ingenuità irritato gli intelletti più fini, al tempo stesso rivelano che egli percepiva con dolorosa intensità il cataclisma morale che si era abbattuto sull’umanità, cataclisma che rispecchia il fantomatico cataclisma ideologico del XX secolo che tutti lamentato. Sia ben chiaro, non è un crimine aspirare a un mondo ideale, più giusto ed equo; in fondo le conquiste civili, l’abolizione d’infami privilegi, tutti i progressi compiuti dall’umanità sono stati resi possibili grazie alla disobbedienza, alla ribellione morale e spirituale di chi non accettava di sottostare al giogo di un sistema perverso e fondamentalmente ingiusto. Ben vengano dunque gli idealisti e nel frattempo consoliamoci con la certezza di non vivere in un’epoca così spaventosa come quella che ci viene prospettata.