A prima vista non sembrerebbe una cattiva cosa: la corte suprema veglia sul pericolo che l’operato delle istituzioni finanziarie non danneggi gli interessi (quelli finanziari in questo caso) dei cittadini tedeschi nella loro veste di «risparmiatori». Del resto nella tradizione germanica la legge ha il compito di conservare il capitalismo presso i propri principi, di fornirlo di regole che ne garantiscano lo sviluppo ordinato.
Così la sbandierata separazione tra politica ed economia si rovescia facilmente nel suo contrario. E la sentenza della corte costituzionale di Karlsruhe sull’acquisto da parte della Bce dei titoli di stato dei diversi paesi europei in determinate proporzioni ne rappresenta un esempio da manuale.
Dal piano legale si slitta visibilmente verso quello della valutazione «tecnica» o politico-economica, peraltro in termini approssimativi e grossolani. Il presidente della corte aveva comunque premesso che le conclusioni a cui era giunta avrebbero potuto apparire «irritanti». La Bce, secondo le giubbe rosse di Karlsruhe, non avrebbe adeguatamente discusso e valutato gli effetti del quantitative easing varato da Mario Draghi e ripreso da Christine Lagarde alla fine del 2019 ed è dunque tenuta a fornire giustificazioni.
Molti analisti, anche in Germania, si sono affrettati a ricordare il lungo dibattito-scontro avvenuto nella Bce tra il governatore Draghi e soprattutto il numero uno della Bundesbank Weidmann. Se vi è dunque qualcosa sul quale si è discusso fino allo stremo nella massima istituzione finanziaria dell’Unione questo è il quantitative easing, la sua estensione e le sue proporzioni. Tenendo anche conto del fatto che la tenuta dell’Euro era in pericolo e il fallimento degli Stati dell’Europa meridionale non avrebbe certo giovato neanche ai risparmiatori tedeschi. Non sono poche le voci che allora si sono levate in Germania nel denunciare questi rischi.
La consulta tedesca gioca col fuoco rimettendo in questione gli esiti di quella discussione in vista dell’aspro scontro sulla gestione europea della crisi pandemica e delle sue conseguenze. Nel pieno della rissa sugli eurobond o coronabond e affini, la cancelliera Merkel, la cui annunciata uscita di scena si fa sempre più problematica, aveva perentoriamente sostenuto che certe cose non si possono fare senza modificare i trattati.
Ma poiché alcune di queste cose riguardano gli strumenti urgentemente necessari per evitare il crollo catastrofico delle economie europee (e dunque della stessa Unione), la lunga e accidentata procedura necessaria a queste modifiche si sarebbe conclusa su uno scenario di irreversibile devastazione.
Nondimeno l’affermazione della Cancelliera contiene implicitamente l’ammissione che l’Unione non è strutturalmente in grado (e cioè senza controverse e insufficienti deroghe) di affrontare vere emergenze, né quella presente, né quelle a venire. Sarebbe l’occasione, senza per questo accantonare le misure eccezionali richieste dalla drammaticità del momento, di imboccare la strada che conduce alla modifica dei Trattati. E di avviare la costruzione di una forza politica transnazionale che si proponga questo obiettivo, senza lasciarsi intimorire dalla minaccia di nazionalismi che, se da un lato non hanno perso aggressività, dall’altro escono alquanto tramortiti dalla crisi epidemica.
La quale ha portato in piena luce interdipendenze e condizioni comuni. Un ripensamento dell’architettura comunitaria capace di guardare lontano avrebbe oggi buone carte da potersi giocare. E non mancano in diversi paesi europei, anche schierati su fronti avversi, forze politiche e sociali che si dicono disposte a farlo.
Le cose non sembrano però muovere in questa direzione. La sentenza della Corte di Karlsruhe (in risposta, fra l’altro, a un procedimento innescato dalla destra nazionalista) fornisce nuove frecce all’arco delle «priorità nazionali», riportando sul piano generale il peso di interessi particolari e ravvivando la diffusa tendenza degli stati nazionali a considerare l’Unione come una «controparte», più che come una realtà politica di cui si fa parte.
Mentre in altri paesi, e il nostro non fa certo eccezione, una lettura politicista della crisi (equilibri tra forze politiche e accaparramento di interessi settoriali) impediscono dietro alla retorica del «nulla sarà come prima» qualunque serio ripensamento dei modelli politici e sociali. Molti dei principali governi europei navigano oggi in un quadro di estrema destabilizzazione: la Germania nella incerta e confusa uscita dall’era Merkel, la Francia già alle prese con una lunga e aspra crisi sociale, la Spagna con una fragile maggioranza messa in piedi a fatica, l’Est ben avviato sulla strada dei regimi autoritari.
La crisi pandemica produce in questa situazione un duplice effetto: coprire tutto e ingabbiarlo in una competizione fra nazioni o fare esplodere le contraddizioni che minano l’Unione europea e la tenuta delle diverse realtà nazionali, palesando i contorni di un nuovo scenario. In attesa degli attori che lo animeranno.