Valori, simboli, politica
In queste settimane di crisi di governo non è mancata l’ennesima polemica per l’uso di simboli religiosi e il richiamo ad aspetti della prassi cattolica all’interno del dibattito politico. Il ricorso ad elementi della religiosità nella retorica politica rappresenta uno dei temi del discorso pubblico non solo italiano: quello a cui assistiamo è la traduzione nel nostro contesto di un orientamento politico che, in altre forme, è presente anche in Francia e Austria, in Polonia e Ungheria. Al tempo stesso, una simile dinamica rappresenta l’espressione di alcune linee di tensione profonde che investono le democrazie liberali e disegnano i tratti di una crisi forse epocale nella concezione di cosa è politica. L’utilizzo acritico delle simbologie cristiane come strumento con cui tracciare il confine identitario di una comunità nazionale non risponde certamente ad una raffinata elaborazione teologica quanto piuttosto ad esigenze di conquista e gestione del consenso. E tuttavia, nella misura in cui questo prospetta ai credenti la possibilità di vedere riconosciuto e sancito un ruolo pubblico e politico della loro fede, esso rappresenta una messa in discussione di un delicato equilibrio fra tre piani, fra loro distinti eppure in relazione: quello della fede, quello della religione che quella fede traduce in forme culturali, quello della politica come uno degli spazi in cui il cristiano è chiamato a vivere e agire. La Chiesa ha maturato la piena coscienza di questa distinzione col Concilio Vaticano II e su di essa ha fondato un’intelligenza teologica della storia come il luogo in cui dare corpo al proprio credere secondo una duplice modalità delineata da un antico testo del II secolo, l’anonima Lettera a Diogneto, che proprio i padri conciliari riscoprirono. Essere in questo mondo pur non appartenendo a questo mondo: questa la chiave di lettura che ricorda ai cristiani che se la loro fede non è mai riducibile ad alcuna cultura o ad alcuna politica, tuttavia della cultura e della politica, ossia di tutto ciò che delinea l’umano, essi sono chiamati ad essere responsabili. La settimana teologica del Meic iniziata ieri a Camaldoli, dedicata a «Fede e politica: un dialogo da ricominciare», segna il tentativo di ripensare questo dinamico equilibrio, così essenziale per le democrazie del nostro tempo. È infatti la chiara e lucida comprensione dei limiti e del valore del politico, della sua storicità e della sua laicità, che permette ai cristiani di riconoscere nella democrazia uno spazio di libertà di cui prendersi cura e che occorre contribuire a sviluppare e umanizzare.