Furono dodici mesi densi. Furono la storia di come un cambio d’epoca, dai poteri romani all’Unione bancaria europea, può portare alla luce impreparazione e terribili malintesi. Quell’anno che cambiò l’Italia si apre l’11 novembre 2014 ad Arezzo con due episodi: il consiglio di Banca Etruria «comunica il proseguimento» – si legge in bilancio – della caccia a un acquirente; la banca aveva appena respinto l’offerta della Popolare di Vicenza, ma cercava un compratore disperatamente e invano. Il suo capitale è già sotto i minimi legali. Per questo poche ore dopo la Banca d’Italia si presenta e avvia la seconda ispezione in due anni. I vertici di Etruria rischiano nuove sanzioni pecuniarie, dopo averne pagate per 2,5 milioni mesi prima.
Sul secondo snodo di quella fase si agitano molti sospetti: il 20 gennaio 2015 il governo di Matteo Renzi, con Maria Elena Boschi ministro delle Riforme, vara il decreto che prevede la trasformazione in società per azioni delle 10 banche popolari con attivi in bilancio oltre gli 8 miliardi. Molti pensano che quella soglia sia fissata proprio per includervi (penultima) Etruria, di cui è vicepresidente il padre della Boschi. Ciò poteva salvare l’istituto, aprendo il capitale. Però quest’accusa è fuori luogo. Il limite degli 8 miliardi, indicato dal Tesoro, è la soglia naturale che separa le 10 grandi popolari dalle 50 più piccole (l’undicesima, Cividale, risulta già molto staccata con attivi per 4,1 miliardi).
Quel decreto comunque non salverà i manager di Etruria. Senza avvertire in anticipo il governo – sarebbe stato un reato per chi dà e per chi riceve la notizia – Banca d’Italia commissaria l’istituto di Arezzo l’11 febbraio. Le strutture di Palazzo Chigi, Tesoro e Via Nazionale continuano a cooperare come prima, ma sembra molto probabile che il fastidio di Renzi verso i vertici di Bankitalia inizi a emergere allora.
Non c’è però tempo per il rancore, perché la sabbia scorre nella clessidra. Etruria è la quarta banca commissariata dopo Carife, Marche e Chieti. Nessuna di loro tiene e il Tesoro pensa a una soluzione che solo a fine ottobre si sarebbe dimostrata impraticabile: ricapitalizzarle con il Fondo di garanzia e tutela dei depositi, una dotazione che 150 banche italiane devono obbligatoriamente versare a titolo di mutua assicurazione. Si parte con Carife, la banca di Ferrara, che ha bisogno di 300 milioni (contro i 500 di Etruria, 1,2 miliardi di Marche); l’assemblea dei soci si tiene a luglio e a inizio settembre il Fondo di garanzia invia alla Banca centrale europea la richiesta di autorizzazione, che però si arena. La Bce non risponderà mai.
Qui servono due passi indietro. Ciò che il Tesoro non dice, allora, è che nel caso di intervento del Fondo le banche non sarebbero fallite ma le nuove norme Ue sugli aiuti di Stato impongono che le obbligazioni subordinate siano convertite in azioni. Non cancellate, ma il loro valore si sarebbe diluito. Non solo, la Commissione Ue fra settembre e ottobre chiarisce definitivamente che il Fondo può solo indennizzare i depositanti. Ma non può ricapitalizzare le banche.
L’altro tassello mancante mette il Parlamento sul banco degli imputati: accidiosamente, adotta in Italia le nuove norme Ue sulle banche solo fra agosto e metà novembre, con quasi un anno di ritardo. Così governo e Bankitalia perdono mesi e credibilità a Bruxelles, perché mancano loro gli strumenti legali per gestire il dissesto. Quando saranno pronti, dopo metà novembre 2015, non c’è altro tempo per organizzare un intervento diverso e «volontario» del Fondo di garanzia – sarebbe stato legale per Bruxelles – perché le quattro banche non possono resistere un solo giorno di più: Etruria si è già dissanguata del 28% dei depositi (1,4 miliardi), le altre per cifre simili. Le famiglie nel panico corrono agli sportelli. I ritardi di Camera e Senato nell’adottare in Italia la nuova direttiva Ue sulle banche non saranno il solo fattore decisivo, ma pesano eccome.
Altrettanto pesa il silenzio di Bruxelles sull’opzione, che esisteva, di annunciare subito rimborsi ai piccoli risparmiatori raggirati (e l’ignoranza in proposito degli italiani). Si arriva così ai fallimenti brutali del 22 novembre 2015. È un azzeramento di pubblico risparmio da 700 milioni. Per il quale la resa dei conti fra istituzioni è ancora aperta.
Corriere della Sera – Federico Fubini – 19/12/2017 pg. 6 ed. Nazionale.