Hugo von Hofmannsthal, Le parole non sono di questo mondo

Göding, 18 giugno 1895

Mio caro Edgar,
quello che mi hai scritto nella tua lettera da Brest – che saresti più contento se a Pola vi fossero giardini verdi e donne con cuffie bretoni anziché nient’altro che cielo, rocce e mare – lo capisco così bene. Qui ci sono campi verde chiaro dove, inginocchiate o in piedi, stanno giovani contadine slovacche con i piedi scalzi e fazzoletti in testa, e di tanto in tanto si va a cavallo attraverso piccoli villaggi con case dipinte di azzurro o di verde, e incontro al cielo, lontano e incolore, corrono deserti lunghi viali di alti pioppi che si levano enormi e tristi, ma in mezzo a questo talvolta ho una solitudine così indicibile e soffocante, come se tutto ciò non facesse parte della vita, della vera vita, ma appartenesse ad uno strano regno che io non comprendo e che mi angoscia, un regno nel quale, sa Dio il perché, mi sono smarrito. Sai, questa sensazione di poter afferrare sempre e soltanto un pezzo della vita e poi venire strappati via di nuovo, tu la provi in modo certo più acuto di me, ma dipende da cause che sono molto più profonde di quelle esteriori, e per questo afferra anche me. Sento come se un giorno dovessi riuscire a dirti qualcosa di più su queste cose, ma adesso ancora no. Nella tua lettera mi hai chiesto qualcosa a cui posso rispondere soltanto male e per sommi capi. Di quel che in genere viene chiamato la questione sociale si fa un gran parlare, cose superficiali, a volte anche di meglio, ma in ogni caso tutto è così morto e distante, come se da lontano si stesse ad osservare attraverso un cannocchiale un gregge di camosci al pascolo; non sembra proprio qualcosa di reale. Che cosa poi sia “reale” non lo sa nessuno, non lo sanno quelli che ci si trovano in mezzo, e tantomeno lo sanno le “classi superiori”. Io non conosco il “popolo”. Non c’è nessun popolo, almeno da noi, ma solo persone, e invero persone molto diverse, anche tra i poveri, con mondi interiori molto diversi tra loro. Di noi inoltre non devi scordare la grande varietà di nazionalità e con questo anche le differenze nel loro sviluppo. Uno studente ebreo povero in canna, un donnaiolo viennese da quattro soldi, corrotto e galante, un malinconico dragone boemo, un malridotto artigiano della Moravia tedesca e poi e poi e poi… si somma questo per cinquantamila volte e lo si chiama “proletariato”. Io posso avere a che fare soltanto con i singoli, forse posso aiutare singole persone, comprenderle, e penso che questo soltanto sia l’importante. Almeno da noi, così come è fatta questa strana Austria, così difficile da capire. In occidente le altre parole possono avere più senso, lì credo che davvero le masse siano più omogenee. Io però sono contento che da noi non sia così. Ti cercherò un libro sulla nostra Costituzione. Cerca soltanto di non volere penetrare troppo a fondo nei concetti, che per noi qui sono ancora più vuoti e inadeguati che altrove, poiché noi li abbiamo trovati già bell’e pronti e pesi da altre situazioni. Con un po’ d’esperienza e un po’ di ricordi si va più lontano di quanto non si pensi in principio. L’importante non è imparare cose nuove ma tener desta la propria interiorità e imparare a fare qualcosa a partire da ciò che già si possiede. Le molte migliaia di concetti astratti che trapassano l’un l’altro sono come i detriti che la grande corrente deposita sugli argini. Quando nuoti nel mezzo, in acque piene di vita, allora non hanno alcuna importanza e non te ne devi curare. Certo, ci si sente turbati nel vedere così tanti uomini che disputano attorno ai concetti come cani attorno a un vecchio osso, e non si ha il coraggio di considerare tutta questa attività come se non fosse nulla. Però dovremmo farlo. La gran parte degli uomini non vive nella vita, ma in una pura apparenza, in una sorta di algebra dove nulla è e tutto soltanto significa. Io vorrei sentire forte l’essere di tutte le cose, vorrei stare immerso nell’essere, nel vero e profondo significato di tutte le cose. L’intero universo infatti è colmo di significato, è senso divenuto forma. L’altezza delle montagne, la vastità del mare, l’oscurità della notte, il modo in cui guardano i cavalli, il modo in cui sono fatte le nostre mani, il modo in cui profumano i garofani, il modo in cui il terreno si dispiega in colli e vallate, o in dune oppure in scogli severi, il modo in cui appare una regione vista da una montagna, e la sensazione che si prova quando in un giorno molto caldo si cammina sul selciato umido nel fresco androne di una casa, o quando si mangia un gelato: in tutte le innumerevoli cose della vita, in ogni singola cosa e in modo imparagonabile, è espresso qualcosa che non si lascia riprodurre per mezzo delle parole, ma che parla alle nostre anime. L’intero mondo è allora un discorso fatto ala nostra anima da ciò che è incomprensibile, oppure è un discorso della nostra anima a sé stessa. La tristezza è un concetto nella lingua vera e propria, ma nel linguaggio della vita ci sono migliaia di tristezze: la tristezza che si prova nel non vedere altro che rocce, mare, cielo; la tristezza di quando, magari sentendo l’odore di fragole fresche, si pensa a certi giorni d’infanzia; la tristezza negli occhi stanchi di certe scimmie, la tristezza affatto diversa di quando il sole tramonta in un certo modo; e ancora così tante altre tristezza, no? Le parole non sono di questo mondo, sono un mondo a sé stante, un mondo del tutto indipendente, come il mondo dei suoni. Si può dire tutto quello che c’è, così come si può musicare tutto quello che c’è. Ma non si potrà mai dire qualcosa proprio così come è. Per questo le poesie suscitano lo stesso sterile struggimento che producono le note. Molti però ignorano tutto questo e quasi soccombono nel tentativo di dire la vita. La vita però dice sé stessa. Parla attraverso i fenomeni. C’è però sempre un fenomeno, una combinazione di parole, una concatenazione di note che toccano la nostra anima cose se fossero la stessa cosa. Sono qualcosa di assolutamente analogo, la triplice espressione di una cosa ignota, una vibrazione divina. Dapprincipio questo ti meraviglierà, poiché in noi è radicata molto profondamente la convinzione – certo una fanciullesca convinzione – che se solo riuscissimo a trovare le parole giuste noi potremmo raccontare la vita, allo stesso modo in cui si mettono da parte, una sull’altra, delle monetine. Non è vero però, e i poeti fanno in tutto e per tutto come i compositori, esprimono cioè la loro anima per mezzo di qualcosa che si trova sparso per l’intera esistenza – poiché l’esistenza ha in sé la totalità di tutti i suoni possibili – ma tutto dipende da come li si combina. Così fa anche il pittore con i colori e le forme, che sono solo una parte dei fenomeni e per lui però sono tutto, e attraverso la loro combinazione gli riesce d’esprimere l’intera anima sua (oppure, ed è lo stesso, l’intero gioco del mondo). In fondo ci si può immaginare anche un meraviglioso giocoliere che lanciando sfere produce attraverso i mezzi espressivi della gravità e del movimento (piuttosto simile, in questo, ad un architetto), colmandoci di ogni struggimento di commozione e di molteplice eccitazione. Perciò, vedi, io penso questo: non vi è nulla di scritto a cui si possa credere. Tutti i grandi libri, i grandi poemi, la bibbia e gli altri sono mondi di sogno, affini al mondo reale e anche tra di essi solo in modo simbolico, e non sono mai da mettere in fila avvitandoli l’uno sull’altro come se fossero tubi. I discorsi che in genere fanno gli uomini (anche i tanti discorsi che si scrivono) sono però simili a quello che si ottiene quando della vera musica viene riprodotta in modo sbagliato e risuona assieme al rumore delle carrozze e a molto altro rumore di strada. Così al massimo potrà venirti in mente per caso qualcosa. Diventare maturi significa forse solo questo: imparare ad ascoltare dentro se stessi in modo tale da dimenticare tutto questo frastuono e da non riuscire infine più nemmeno a sentirlo. Quando ci si innamora di se stessi e, fissando l’immagine rispecchiata, si cade in acqua e si annega, come accadde a Narciso, io credo si sia caduti nel miglior modo possibile, come piccoli fanciulli che sognano di cadere attraverso la maniche del cappotto del loro padre nel regno delle favole, tra la fontana di vetro e il principe ranocchio. “Ci si innamora di sè”, intendo della vita, oppure anche di Dio, come si vuole. Volevo scrivere una volta tutto questo, perché è il mio credo, e poi anche perché forse ti dice qualcosa. O no? Allora ribattimi presto.
Di cuore

Tuo Hugo