Ho 65 anni e non mi ritiro.

Attivi, al centro di relazioni sociali, colti e motivati Così la Cattolica fotografa i «giovani anziani» italiani che per produttività sorpassano pure i giapponesi

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Nel panorama europeo sta emergendo una nuova fascia di età attiva e fattiva: i «giovani anziani» italiani. Età compresa fra i 65 e i 74 anni. Nel mondo si affiancano solo ai giapponesi, che però stiamo sorpassando. Da tempo sotto osservazione dai ricercatori dell’università Cattolica del Sacro Cuore con un programma di studio interdisciplinare (psicologi, economisti, statistici, sociologi) cominciato due anni fa, coordinato da Fausto Colombo, e di recente presentato al Parlamento europeo. E a Milano, nella sede dell’Ateneo, dove si sono tirate le somme in un incontro dal titolo: «Non mi ritiro: l’allungamento della vita, una sfida per le generazioni, un’opportunità per la società».
In meno di un secolo l’aspettativa di vita è aumentata di 30 anni. Una nuova età della vita si è aggiunta fra la maturità e l’estrema vecchiaia. Spiega Colombo: «Oggi possiamo osservare la prima generazione che si affaccia a questa età: particolarmente numerosa e in grado di mettere in crisi il welfare tradizionale».
I giovani anziani costituiscono un segmento importante anche per i consumi: mediamente agiati, garantiti da forme pensionistiche relativamente vantaggiose, ancora integrati nella vita sociale e spesso anche in quella produttiva. In grado di svolgere un ruolo importante, e sussidiario, sia nella cura dei «grandi anziani» (i genitori) sia nel sostegno dei figli, oggi assai meno garantiti.
L’Italia è tra i Paesi più longevi e con la maggior riduzione della natalità. Da noi si è ancora attivi a 63 anni e passa, ossia tre anni e un mese in più della media delle società occidentali. Solo il Giappone è in linea, ma poco dietro, con l’Italia. Eppure nel 1970 noi eravamo sotto la media europea di un anno e mezzo, rispetto a una asticella posta a 55 anni. L’incremento è stato di oltre due anni ogni decade.
«Questa ricerca — spiega Colombo — mostra come l’invecchiamento della popolazione più che aver prodotto un aumento della quota di anziani, come risulta dalle statistiche ufficiali, abbia determinato soprattutto uno slittamento in avanti dell’età di confine tra fase adulta e fase anziana».
Ecco l’identikit dei giovani anziani. L’indagine è stata svolta su 900 soggetti in 20 Regioni italiane; il 46,3% di loro sono maschi e il 53,7% femmine; il 73,3% sono coniugati, il 4,2% è separato o divorziato, il 16,5% vedovo. Il 90,6% ha avuto figli e nel 65,4% dei casi hanno nipoti minorenni, nel 22,7% maggiorenni. Il tipo di famiglia prevalente è quella coniugale di coppia (48,4%); segue quella con figli coabitanti (24,6%). Nel 19,6% dei casi, questi «giovani anziani» vivono soli. Ricche le reti relazionali: prevalgono i parenti (in media 10 parenti per anziano), seguono gli amici (circa 9 per anziano) e i vicini di casa. Maggiore socievolezza mostrano coloro che dispongono di maggiori risorse culturali (uno su cinque è laureato).
Per quanto riguarda l’indice di status, circa la metà dei giovani anziani si attesta sul livello medio, ma più del 30% si colloca nel livello basso. In controtendenza rispetto alla media europea che ha quote di anziani meglio collocati per status economico e culturale.
Di fronte a questa fotografia il welfare andrebbe ridisegnato, conclude Colombo: «Considerare allo stesso modo un cinquantacinquenne di metà ventesimo secolo e un cinquantacinquenne di oggi significa considerare due persone in momenti diversi della loro vita e in condizioni molto diverse all’interno della popolazione, come se comparassimo un settantenne e un ottantacinquenne di oggi».
Vero. Andrebbe tutto rivisto al più presto, rimodulando società e ruoli. Colombo cita il poeta turco Nazim Hikmet: «Devi vivere con tanta dignità da potere, a 70 anni, piantare un ulivo, non perché un giorno sia dei nipoti, ma perché, avendo paura di morire, tu non credi nella morte perché la vita trabocca». Hikmet era noto come un «rivoluzionario romantico».
Mario Pappagallo