Lei è Arendt, la grande intellettuale ebrea. Lui è il comandante SS che organizzò la Soluzione Finale. Lo scrittore immagina, per il teatro, un dialogo che non c’è mai stato. Ve lo anticipiamo
di Stefano Massini
Buio.
Sullo sfondo si sentono rumori di treni, ferraglia.
E ancora: grida umane, pianti.
Scoppi di fucile, mitragliatori.
È una sequenza spietata, lancinante.
A tratti assordante.
Poi tutto svanisce lentamente.
Resta solo un lungo silenzio mortale.
Si alzano le luci su uno spazio neutro, illuminato da luci al neon. Potrebbe essere un bunker, o una stanza da interrogatori.
O forse, semplicemente, un luogo inesistente.
A destra è seduto lui, Eichmann, di spalle, avvolto nel fumo di una sigaretta. Non lo vediamo in viso, sentiamo solo le sue parole, scandite nel fumo.
EICHMANN
C’erano altre vie.
Silenzio. Aspira la sigaretta. Tossisce.
C’erano altri modi, l’ho sempre pensato.
Silenzio.
Potevamo prenderli tutti e spostarli nel Madagascar. Non è un posto a caso: avevo già pronto il piano. Le navi. Tutto studiato. Tutto predisposto.
I dettagli. Era una soluzione idonea. Più che idonea.
Un’isola. Lontana. Buon clima. Bel paesaggio.
Avremmo risolto il problema.
Oppure c’era l’ipotesi polacca, la studiai io stesso: trapiantarli tutti in una specie di piccolo stato ebraico, a Nisko, fra Lublino e Cracovia. Rispetto al Madagascar c’erano aspetti più semplici da gestire.
Sarebbero stati autonomi. Loro leggi, loro cultura. Dove stanno? Là. Niente morti, niente rumore. E oggi non saremmo qui.
Silenzio. Aspira la sigaretta.
Sottoposi i progetti ai piani alti, ne parlai almeno tre volte. Non vollero saperne.
A questo punto si alza sulla sinistra una figura femminile. Mezza età. Capelli scuri. Un abito ordinario.
In silenzio percorre alcuni passi nella stanza.
HANNAH
C’è qualcosa che voglio raccontarle. Nel 1933 successe un fatto, in Russia. Due funzionari — si chiamavano Jagoda e Berman — insomma quei due si presentarono da Stalin. C’era un problema da risolvere. Anzi un doppio problema: i contadini rimasti senza terre, e le carceri piene di criminali.
Sa che c’è? Jagoda e Berman — o come si chiamavano, non fa differenza — credo che quel giorno sorridessero. Io almeno sorrido, quando sento di avere una soluzione, per qualunque cosa. Quando persi le chiavi di casa e mi riuscì di far scattare la serratura della finestra, giuro che sorridevo.
Tant’è.
Dicevo? Ah sì: pare fu il compagno Jagoda a prendere la parola: “Abbiamo un progetto.
Una colonna di treni. Dalla stazione merci di Mosca. E un’altra da Leningrado.
Le riempiamo.
Piene zeppe. Tutti i contadini rimasti senza terra, con le famiglie. E insieme a loro, i criminali.
Assassini. Stupratori. Dentro, tutti: nei vagoni”.
“E poi?”, chiese Stalin. “Poi tutti a Tomsk.”
E sorrisero tutti, credo. Tomsk è un posto in Siberia. Ci fa un freddo terribile a Tomsk, ma se ti ci metti d’impegno qualcosa riesci a coltivare. Poi gli animali.
E sennò c’è sempre il legname. Insomma, l’idea era semplice: “Prendiamo tutti quelli che qui sono un problema, e li spostiamo come un pacco a Tomsk.” Stalin ci pensò un po’ su. Non molto. Poi pure lui sorrise. Mise il timbro. E firmò.
Il 18 maggio del ’33 arrivarono in cinquemila, in Siberia. Le donne, i bambini. I carcerati con loro.
Sembrava tutto perfetto. Tutto studiato. Tutto predisposto. I dettagli. Ma accadde qualcosa.
Qualcosa su cui solo lei e quelli come lei, Eichmann, possono darmi un’idea. Spiegarmi. Perché da sola non me lo spiego. Potevano lasciare quella gente a Tomsk, proprio come lei voleva lasciare noi in Madagascar o in quel cavolo di posto polacco. Invece no. Alcune migliaia le buttarono su un’isola, in mezzo a un fiume. Non c’era ragione per farlo, nessuna ragione. Ma lo fecero.
Vollero farlo.
L’isola si chiamava Nazino. Li ammassarono lì, senza cibo, né acqua. Dopo tre o quattro giorni cominciò la strage. Si mangiarono l’un l’altro. Sì: cannibali. E morirono, in migliaia. Le guardie, i funzionari non mossero un dito. Stavano lì, a guardare.
Erano gli anni — esatti — in cui lei cominciava a lavorare alle SS. Mi ha colpito, sono sincera. Mi ha fatto pensare. Non alle colpe, no. Non è questo.
Dove comincia — e perché comincia — il male.
Ci sarà un momento, preciso, in cui prende forma. O no? Deve esserci. Tutto ha un inizio.
Quell’attimo — impercettibile — in cui si passa dal nulla al qualcosa. È questo che cerco io, da lei.
Eichmann a questo punto si volta. Lo vediamo per la prima volta in viso. È un uomo di cinquant’anni, con uno spesso paio di occhiali.
Magro, il viso leggermente scavato. Ma ciò che colpisce è la sua assoluta posatezza. E quel modo di comportarsi dimesso, che lo fa sembrare un impiegato di quarto livello, o il bibliotecario stanco di una scuola di provincia.
Quando mi avete arrestato, in Argentina, ho passato sette giorni in una cella. Alla porta c’era fissa una guardia. Credo per paura che mi uccidessi.
Un pomeriggio, nel corridoio, passò sul muro una lucertola. La guardia la fissò. Poi a un tratto afferrò un bicchiere, lo capovolse, lei scappò ma lui riuscì a bloccarcela dentro, contro il pavimento.
E la tenne lì: chiusa. Non per poco tempo: per ore. La guardò morire, capisce? Come quei russi in Siberia.
E come fece lei, Eichmann.
Non comandavo io in Germania.
Lei è l’uomo che ha messo in piedi tutto quanto.
Erano ordini. “L’unico onore è non tradire mai.”
Era questo il suo motto?
Non sono parole mie. Ma le ho rispettate, fino in fondo.
Fino in fondo, certo.
“L’unico onore è non tradire mai”.
La Soluzione Finale è una sua creatura.
Mi chiamo di nome Adolf, come Hitler. Ma non era Eichmann il Führer.
Quindi non ha colpa? Non sta a me dargliela per forza: non sono un giudice, questo non è un Tribunale. Ne risponderà a loro. A me interessa altro, gliel’ho detto.
A Buenos Aires io ero chiuso in cella, la lucertola nel bicchiere. Se la guardia fosse stata libera di uccidermi — se non fossi stato Eichmann — mi avrebbe guardato soffocare esattamente come la lucertola.
Non per cattiveria. Fa parte dell’uomo.
Fa parte di me, fa parte di lei. Per paura della morte, la osserviamo. Per controllarla. Per chiamarla per nome. Lei parla del “male”: non esiste il male, esiste solo la paura di incontrarlo.
Lo faccia stabilire a me. Io ho bisogno di capire chi era lei prima di diventare Eichmann.
Cosa vuol sapere?
Tutto.
La ascolto: chieda pure.
Quando è nato.
Era il 19 marzo del 1906. Le cinque del mattino. A Solingen.
Dove si trova?
In Renania. Ci fanno i coltelli, a Solingen.
Le for-bici. Se non vado errato, pure i bisturi per le ope-razioni. Ha presente quando vedi luccicare le lame del chirurgo, e ti raccomandi a Dio per ri-svegliarti vivo? Ecco. Le lame le fabbricano là. Preghi Dio, ti metti nelle sue mani.
In realtà tutto dipende da un pezzo di metallo fabbricato da tre operai tedeschi. Che per giunta, magari, l’hanno forgiato bestemmiando.
Lei crede in Dio, Herr Eichmann?
In Dio no. In un Dio, sì.
Quale Dio?
Un essere superiore.
Superiore a chi?
A me, a lei. A tutta questa porcheria che chiamiamo mondo. Un posto piccolo. Misero. Con dentro gente misera, convinta che Dio sia un barattolo di miele. Zucchero e bontà, amore fraterno e ghirlande di fiori. Sceneggiate.
Adolf Hitler amava le sceneggiate. Parate militari come cerimonie. Lui sull’altare. Come Dio.
Sceneggiate, appunto.
Non esiste Dio, non esiste Hitler.
Esiste qualcosa di potente, di più potente di me, di lei e di Hitler. Lo chiami Natura, se vuole, lo chiami Dio, conta quel che conta. Tiene le redini di tutto, Frau Arendt. E questo naturalmente ha un prezzo.
Quale prezzo?
Che non c’è il bene e non c’è il male. C’è solo quello che va fatto.