Riassunto dei fatti. Il 16 luglio scorso Papa Francesco ha pubblicato una Lettera Apostolica, Traditionis Custodes, “sull’uso della liturgia romana anteriore alla riforma del 1970”. In sostanza, il Papa limita – fino alla sparizione – la possibilità della messa latina – quella secondo il Missale Romanum del 1962 –, concessa da Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, nonostante la “riforma voluta dal Concilio Vaticano II”. In sostanza, rimandando la palla ai vescovi, il papa marginalizza la liturgia latina – che non può svolgersi “nelle chiese parrocchiali” – sperando di ricondurre a ragione i fedeli dissidenti, latinizzanti.
La natura dei fatti. Dire la messa in italiano o in latino non è la stessa cosa: che lingua parla Dio?, qual è la lingua della verità? Questioni che per il mondano – che parla per comunicare coi propri simili – sono secondarie, nell’ambito eterno hanno statura decisiva. La liturgia va partecipata più che capita; la risposta alla corruzione è nella ripetizione di gesti, atti, litanie, che pur variando – sempre è diverso nell’uguale, il rito – posseggono potenza di petroglifo. Un formulario non si può ‘tradurre’ come fosse una ricetta da cucina: non è equivalente cantare il requiem in italiano o in latino. Cosa accade in quella oscillazione linguistica?, chi è l’invasore e chi la sentinella?
Guerra santa. L’azione di Papa Francesco è radicale; è un atto di guerra. Per capirla bisogna leggere la lettera “ai Vescovi di tutto il mondo” che il papa ha allegato al Motu Proprio. “La possibilità di usare il Messale Romano promulgato da san Pio V… era soprattutto motivata dalla volontà di favorire la ricomposizione dello scisma con il movimento guidato da Mons. Lefebvre”. Se Benedetto XVI stigmatizzava la “creatività” delle moderne liturgie – ad esempio, le musiche pop, da festival di Sanremo, che punteggiano la liturgia, o le orazioni ‘socialmente utili’, che più che spiegare il testo sacro, e approfondirlo, lo riducono a manuale morale, a proclama politico –, Papa Francesco è preoccupato dall’“uso strumentale del Missale Romanum del 1962, sempre di più caratterizzato da un rifiuto crescente non solo della riforma liturgica, ma del Concilio Vaticano II, con l’affermazione infondata e insostenibile che abbia tradito la Tradizione e la ‘vera Chiesa’”. In particolare, “Dubitare del Concilio significa dubitare delle intenzioni stesse dei Padri… e, in ultima analisi, dubitare dello stesso Spirito Santo che guida la Chiesa”. Il Motu Proprio esprime, esalta, espone lo scisma tra ‘progressisti’ e ‘conservatori’ – abuso di una formula bieca, politica, da affaristi dello spirito – che lacera la Chiesa. Optare per una lingua, obliando l’altra, della ‘tradizione’ – che non ammette muschio né belletto, ma il ballo del sempre rinnovato – è come mutare l’asse terrestre, il moto degli astri, la natura divina.
Infallibilità fallibile (o fallimentare). L’infallibilità papale, si sa, è fallibile. In un memorabile discorso sul valore della liturgia in seno alla Chiesa, Pio XII, il 22 settembre del 1956, diceva: “Sarebbe superfluo ricordare ancora una volta che la Chiesa ha gravi motivi per mantenere fermamente nel rito latino l’obbligo incondizionato per il sacerdote celebrante di usare la lingua latina”. Nella Veterum sapientia, il 22 febbraio del 1962, Giovanni XXIII promuove lo studio del latino,
“che per natura si adatta perfettamente a tutte le forme di cultura in tutti i popoli: non suscita invidia, con tutti è imparziale, non è orgoglioso, da tutti è bene accolto… ha una struttura nobile… uno stile conciso, mobile, armonico, colmo di maestà e di dignità, pronto alla chiarezza e al solenne. Per questo motivo la Sede Apostolica ha sempre preservato con zelo e con amore la lingua latina, degna di indossare come splendida veste la dottrina celeste delle leggi Santissime nell’esercizio del sacro magistero… Per questo, la piena conoscenza e l’uso appropriato di questa lingua, così intimamente connessa alla vita della Chiesa, interessa la religione più che la cultura o le lettere”.
Giovanni XXIII, che ha aperto il Concilio Vaticano II, sancisce un legame inestricabile tra la lingua latina e la liturgia cristiana cattolica, tra quel linguaggio e i sacri misteri.
A lezione da Cristina. Diversi sbandierano, oggi, l’icona di Cristina Campo quasi fosse una femminista, amazzone dallo stile raffinato, laccato, che soddisfa i palati buoni, estro concentrato verso gli eventi astrali, zodiaco che sta bene su tutte le bocche, in tutti i salotti. Troppi, però, dimenticano – con ipocrita sbadataggine – la micidiale lotta ingaggiata in campo sacro da Cristina Campo per la difesa della “liturgia tradizionale” contro lo scempio conciliare. I testi che distinguono questa battaglia, condotta per lo più in solitudine, non sono esoterici, li trovate, ad esempio, nella raccolta di articoli pubblicati come Sotto falso nome, Adelphi, 1998.
“Il latino non è l’unica e sola lingua canonica ma è quella che la storia ci ha affidata ne varietur. Il processo seguito da tutte le religioni è di manifestarsi nella lingua del momento, per poi non variare mai più perché deve restare intangibile il momento dell’annuncio unico, fissato dalla Provvidenza”,
scrive il 4 maggio 1966 in Una voce.
Proprio la Campo fu protagonista nella redazione del manifesto, pubblico il 5 febbraio 1966, “in cui si esprimeva il desiderio di veder preservata la liturgia latino-gregoriana in tutta la sua purezza almeno nelle chiese conventuali”. Si premurò, Cristina, di promuovere una possente raccolta-firme, cioè di “scegliere dei nomi che siano ben noti, in Italia, conosciuti perfino dall’uomo della strada, cioè perfino a Santità” (così ad Alejandra Pizarnik). Tra i firmatari, non risultano violenti conservatori, predoni del culto, ma figure di spicco della cultura occidentale, da W.H. Auden a Luigi Dallapiccola, da Giorgio De Chirico a Victoria Ocampo, da Eugenio Montale e Salvatore Quasimodo a Lanza del Vasto, Augusto Del Noce, Maria Zambrano. Si avvicinò a Mons. Lefebvre, la Campo, e l’arcivescovo – poi scomunicato da Giovanni Paolo II – ne riconobbe il vigore in un biglietto privato, inviato a Ida Samuel, segretaria di Una Voce-Bologna, nel 1986: “Cristina Campo! che ricordo durante quel miserevole Concilio. Quale incoraggiamento abbiamo ricevuto da lei per condurre la buona battaglia, meglio di noi ella vedeva l’invasione dei nemici della Chiesa e della vera Roma. Ha avuto ragione e ha ancora ragione: i nemici sono ovunque nella Chiesa e specialmente a Roma”.
La bella lotta contro l’abuso. Privi di rito, siamo muti; nudi se la liturgia si disfa in litania, lacerato se la sintonia con il rito si interrompe. La Campo non riuscì a vincere la bella lotta, non terminò di criticare quelle che anche Papa Francesco indica come “eccentricità che degenerano facilmente in abusi”. Nell’ambito sacro non regna la politica ma la verità; non c’è spazio per questioni ‘culturali’ perché tutto penetra la vita e la morte. “C’è chi s’è convertito vedendo due monaci inchinarsi insieme profondamente, prima all’altare poi l’uno all’altro, indi ritrarsi nei penetrali del coro”, scrive la Campo in alcune Note sopra la liturgia. “In un mondo nel quale l’uomo lentamente muore per mancanza non già di riverenza, come i filantropi vorrebbero indicarci, ma perché non sa più chi, non sa più che cosa riverire, un gesto simile piò mutare una vita”. Già. Ma noi tutto vogliamo capire, tutto vogliamo, prendiamo il Corpo di Cristo in piedi, già risolti, pretendiamo di fissare ciò che acceca, e alcuni preti, pare, hanno a noia il Vangelo.