C’erano “alto e basso”, oggi ci sono “mainstream e trasgressione”: un libro affronta questa lunga storia Ma forse dovremmo usare categorie più complesse
A più di trent’anni da Bandiera bianca (1981) di Franco Battiato, canzone che a sua volta usciva a trent’anni dai Minima Moralia (1951) di Theodor Adorno, si può forse meglio capire l’abisso paradossale che il cantautore catanese spalancava sussurrando “minima immoralia” nel ritornello della canzone in cui deprecava Bob Dylan, Alan Sorrenti, i deodoranti, e infine anche sé stesso. Con La voce del padrone, l’album che la conteneva, Battiato entrava nell’hit parade italiana, anzi la sfondava, associando testi considerati stravaganti (e lo erano), se non assurdi (e non lo erano) a musiche ballabili e di raffinata vacuità. Deformazione del titolo latino di un filosofo tedesco, la citazione adorniana celebrava l’ingresso definitivo e smaccato (per chi non l’avesse ancora percepito) della critica della cultura di massa all’interno della cultura di massa stessa: tre minuti di cattivi umori dance, in parte sarcastici, in parte ironici. Nei termini di Umberto Eco, l’Integrazione dell’Apocalisse. Ammesso che lo sguardo apocalittico un po’ integrato non lo fosse stato da sempre.
Viene da ripensarci, quando non si può fare a meno di notare che l’ultimo libro di Zygmunt Bauman, la conversazione con Riccardo Mazzeo Elogio della letteratura (Einaudi, 2017), porta in esergo non una, non due, non tre bensì addirittura quattro citazioni da Adorno. Forse chi avesse pensato che oramai Francoforte fosse più che altro la sede della maggiore fiera editoriale europea si sbagliava.
Adorno continua a ritornare e lo troviamo anche come punto di riferimento teorico di una corposa storia della cultura di massa appena pubblicata dallo storico Alberto Banti, Wonderland (Laterza). Cosa può essere una “storia della cultura di massa”? Certamente un’impresa ambiziosa. Richiede innanzitutto una collazione formidabile di dati e date (in un arco temporale anche più ampio di quello pur notevole dichiarato dal sottotitolo: Da Walt Disney ai Pink Floyd ): investimenti, incassi, piani industriali dei produttori, invenzioni tecnologiche, hit parade. Dati e date che resteranno poi da connettere con le altre serie pertinenti: quella degli eventi storici e politici, quella dei cambiamenti e sommovimenti sociali, quella della cultura non “di massa”. Ma naturalmente occorre poi avere anche criteri di interpretazione, per dare senso a questi dati. È qui che il notevole sforzo documentario di Banti adotta la prospettiva di Adorno, e Horkheimer. Lo si vede già nella delimitazione del campo di ricerca che, come il titolo sul Paese delle Meraviglie segnala, coincide con quello dell’ entertainment: radio, cinema, fumetti, cartoon, musica pop e rock, pubblicità. È già uno schema interpretativo: si potrebbe per esempio parlare di cultura di massa includendo nel suo campo informazione e infotainment.
Dovendone parlare in sintesi, si aggiungerà che questo campo viene sostanzialmente diviso da Banti in due parti contrapposte: il mainstream e le contronarrazioni, il (tendenzialmente) normativo e il trasgressivo, il consolatorio e l’inquietante. Le canzonette da musical di Tin Pan Alley e il jazz, le commedie hollywoodiane a lieto fine e Easy Rider. La pubblicità, in particolare, è vista come l’espressione più compiuta di quella che Horkheimer e Adorno, nella Dialettica dell’illuminismo, chiamano non cultura di massa ma “industria culturale”. Tanto questa quanto, appunto, la pubblicità, sono caratterizzate da “ubiquità” e “ripetizione” (di slogan) e “nell’una come nell’altra, sotto l’imperativo dell’efficienza operativa, la tecnica diventa psicotecnica, tecnica della manipolazione degli esseri umani”. Questo principio, accolto da Banti, non è in verità fra quelli adorniani meglio invecchiati. Dopo Adorno, e anche in polemica con lui, sono state dette e fatte molte cose, che Banti non discute. Si può non considerare neppure di sfuggita l’opera di Marshall McLuhan? O di Roland Barthes? Sulle comunicazioni di massa la semiotica ha esercitato, sin dalle sue origini, il suo sguardo: ha approfondito la prospettiva della persuasione occulta e della manipolazione giungendo a rovesciare il punto di vista e a occuparsi dei diversi modi in cui la pubblicità dà valore agli oggetti che promuove. Già dagli anni Sessanta Umberto Eco sottolineava come non si possa postulare che la comunicazione top-down ottenga gli effetti che programmaticamente si proporrebbe. Un suo esempio ricordava la tv italiana, esordita nel 1954 e amministrata da allora con criteri di rigida ortodossia cattolica. La prima generazione cresciuta con quella tv è quella che ha poi “fatto il ’68”. Dalla fucina di perbenisti spensierati che la tv voleva essere uscì il concetto stesso di “contestazione”. Esiste infatti la “decodifica aberrante”, come teorizzava Eco assieme a Paolo Fabbri: i prodotti dell’industria culturale si combinano con codici anche imprevisti di fruizione e non è mai detto che i manipolandi si lascino quietamente manipolare. Peraltro proprio Adorno preferiva parlare di “industria culturale”, piuttosto che di “cultura di massa”, perché questa seconda denominazione poteva lasciar pensare a forme di generazione spontanea, dal basso, che lui invece intendeva escludere. Eppure ci sono.
A rendere ancora più complessa l’intera materia oggi non ci sono solo internet e i social network. Il ruolo dell’ entertainment nell’Occidente contemporaneo ha preso gli aspetti metamorfici e pervasivi che tanto hanno dato da pensare e narrare a David Foster Wallace e la stessa distinzione fra cultura alta e bassa (da sempre problematica) pare diventare inservibile, per chi non sia rinchiuso né nelle roccaforti dell’accademia più elitaria né nei ghetti altrettanto risentiti e rancorosi delle subculture più selvagge e incomunicanti con alcun esterno.
Così l’opposizione che Banti individua fra narrazioni mainstream e contronarrazioni rischia di cadere nello stesso manicheismo che rimprovera alle prime (con personaggi positivi e negativi senza sfumature). Oggi tale opposizione rischia soprattutto di non far comprendere il successo delle serie tv, che sono indubbiamente mainstream e prodotte industrialmente ma anche prive di lieto fine e di personaggi che non siano moralmente ambigui. Così come la separazione fra musica di consumo e musica, in qualche modo, “di opposizione” regge (certo, semplificando) fino a Madonna ma poi impedisce di prendere in considerazione casi come quello di Prince (sincretico, di grande entertainment, ma tutt’altro che spensierato).
Viene da ripensarci, quando non si può fare a meno di notare che l’ultimo libro di Zygmunt Bauman, la conversazione con Riccardo Mazzeo Elogio della letteratura (Einaudi, 2017), porta in esergo non una, non due, non tre bensì addirittura quattro citazioni da Adorno. Forse chi avesse pensato che oramai Francoforte fosse più che altro la sede della maggiore fiera editoriale europea si sbagliava.
Adorno continua a ritornare e lo troviamo anche come punto di riferimento teorico di una corposa storia della cultura di massa appena pubblicata dallo storico Alberto Banti, Wonderland (Laterza). Cosa può essere una “storia della cultura di massa”? Certamente un’impresa ambiziosa. Richiede innanzitutto una collazione formidabile di dati e date (in un arco temporale anche più ampio di quello pur notevole dichiarato dal sottotitolo: Da Walt Disney ai Pink Floyd ): investimenti, incassi, piani industriali dei produttori, invenzioni tecnologiche, hit parade. Dati e date che resteranno poi da connettere con le altre serie pertinenti: quella degli eventi storici e politici, quella dei cambiamenti e sommovimenti sociali, quella della cultura non “di massa”. Ma naturalmente occorre poi avere anche criteri di interpretazione, per dare senso a questi dati. È qui che il notevole sforzo documentario di Banti adotta la prospettiva di Adorno, e Horkheimer. Lo si vede già nella delimitazione del campo di ricerca che, come il titolo sul Paese delle Meraviglie segnala, coincide con quello dell’ entertainment: radio, cinema, fumetti, cartoon, musica pop e rock, pubblicità. È già uno schema interpretativo: si potrebbe per esempio parlare di cultura di massa includendo nel suo campo informazione e infotainment.
Dovendone parlare in sintesi, si aggiungerà che questo campo viene sostanzialmente diviso da Banti in due parti contrapposte: il mainstream e le contronarrazioni, il (tendenzialmente) normativo e il trasgressivo, il consolatorio e l’inquietante. Le canzonette da musical di Tin Pan Alley e il jazz, le commedie hollywoodiane a lieto fine e Easy Rider. La pubblicità, in particolare, è vista come l’espressione più compiuta di quella che Horkheimer e Adorno, nella Dialettica dell’illuminismo, chiamano non cultura di massa ma “industria culturale”. Tanto questa quanto, appunto, la pubblicità, sono caratterizzate da “ubiquità” e “ripetizione” (di slogan) e “nell’una come nell’altra, sotto l’imperativo dell’efficienza operativa, la tecnica diventa psicotecnica, tecnica della manipolazione degli esseri umani”. Questo principio, accolto da Banti, non è in verità fra quelli adorniani meglio invecchiati. Dopo Adorno, e anche in polemica con lui, sono state dette e fatte molte cose, che Banti non discute. Si può non considerare neppure di sfuggita l’opera di Marshall McLuhan? O di Roland Barthes? Sulle comunicazioni di massa la semiotica ha esercitato, sin dalle sue origini, il suo sguardo: ha approfondito la prospettiva della persuasione occulta e della manipolazione giungendo a rovesciare il punto di vista e a occuparsi dei diversi modi in cui la pubblicità dà valore agli oggetti che promuove. Già dagli anni Sessanta Umberto Eco sottolineava come non si possa postulare che la comunicazione top-down ottenga gli effetti che programmaticamente si proporrebbe. Un suo esempio ricordava la tv italiana, esordita nel 1954 e amministrata da allora con criteri di rigida ortodossia cattolica. La prima generazione cresciuta con quella tv è quella che ha poi “fatto il ’68”. Dalla fucina di perbenisti spensierati che la tv voleva essere uscì il concetto stesso di “contestazione”. Esiste infatti la “decodifica aberrante”, come teorizzava Eco assieme a Paolo Fabbri: i prodotti dell’industria culturale si combinano con codici anche imprevisti di fruizione e non è mai detto che i manipolandi si lascino quietamente manipolare. Peraltro proprio Adorno preferiva parlare di “industria culturale”, piuttosto che di “cultura di massa”, perché questa seconda denominazione poteva lasciar pensare a forme di generazione spontanea, dal basso, che lui invece intendeva escludere. Eppure ci sono.
A rendere ancora più complessa l’intera materia oggi non ci sono solo internet e i social network. Il ruolo dell’ entertainment nell’Occidente contemporaneo ha preso gli aspetti metamorfici e pervasivi che tanto hanno dato da pensare e narrare a David Foster Wallace e la stessa distinzione fra cultura alta e bassa (da sempre problematica) pare diventare inservibile, per chi non sia rinchiuso né nelle roccaforti dell’accademia più elitaria né nei ghetti altrettanto risentiti e rancorosi delle subculture più selvagge e incomunicanti con alcun esterno.
Così l’opposizione che Banti individua fra narrazioni mainstream e contronarrazioni rischia di cadere nello stesso manicheismo che rimprovera alle prime (con personaggi positivi e negativi senza sfumature). Oggi tale opposizione rischia soprattutto di non far comprendere il successo delle serie tv, che sono indubbiamente mainstream e prodotte industrialmente ma anche prive di lieto fine e di personaggi che non siano moralmente ambigui. Così come la separazione fra musica di consumo e musica, in qualche modo, “di opposizione” regge (certo, semplificando) fino a Madonna ma poi impedisce di prendere in considerazione casi come quello di Prince (sincretico, di grande entertainment, ma tutt’altro che spensierato).
La Repubblica – Stefano Bartezzaghi – 08/10/2017 pg. 24 ed. Nazionale ROBINSON