Grandi, l’atelier-serraglio per le Cinque Giornate

Di getto, pensando al tema di questo «Alias-D» estivo, e ributtando nei secoli più vicini a noi le categorizzazioni di Nati sotto Saturno, ho pensato alla Scapigliatura. Poi subito, sfumando in motivazioni autobiografiche, a Giuseppe Grandi. Perché questo scultore varesino ha attraversato luoghi che mi sono cari, e la disposizione di spirito e le eccentricità leggendarie che ammantano il suo monumento alle Cinque Giornate – sotto il quale passo quasi ogni giorno –, e poi le ossessioni, le dipendenze, le malinconie e l’esercizio solitario e insieme rivolto a un bene comune e a un messaggio di lotta universale, lo rendono un artista nel senso più pieno del termine.
Per diversi motivi, il gruppo degli scapigliati di cui Grandi faceva parte non ha goduto di fortuna critica, tutt’altro. Sono stati trattati come glorie municipali chiuse dentro la cerchia dei navigli e dipinti come flâneurs tardo-romantici. Per esempio, il vecchio conservatore Cesare Cantù, nel 1881, li descriveva come «eleganti oziosi dalle bocche profumate di sigari e di assenzio». Eppure alcuni dei capolavori del secondo Ottocento italiano sono farina del loro sacco.
Il loro campo di battaglia contro l’accademismo era tra gli orti e i prati di corso San Gottardo, accanto al naviglio Pavese, nel cortile dell’Osteria della Noce: Carlo Dossi definì queste tavolate piene di artisti e letterati, sempre intorno all’elegante Giuseppe Rovani, «una cattedra all’aria aperta»; il parallelo con ciò che succedeva contemporaneamente a Parigi, tra il Café Guerbois e le rive della Senna, sarebbe più che ovvio, ma i due mondi non si parlarono o, perlomeno, si parlarono i letterati come Zola e Dossi ma non Renoir e Cremona: gli artisti scapigliati rimasero ripiegati su loro stessi, rimpiccioliti da problemi più o meno esistenziali e poco pronti allo scatto, con rare eccezioni.
La loro trasgressione per via di sregolatezza anarchica e risate era tutta tesa a fare il contropelo all’imborghesimento tetro e serioso della classe dirigente post-unitaria; scandalizzare chi aveva tradito gli ideali risorgimentali. Così, imitando Rovani, si preferiva l’assenzio ai decotti, «l’arte al successo, la vita en bohême alla esistenza in iscrittura doppia». E si finiva per distruggersi sui tavoli dei bar, smaltendo poi le sbornie nella disillusione.
Gli eccessi e le inquietudini avevano consumato le esistenze di alcuni di questi artisti e gli anni sessanta (Ottocento) sono stati minati da crisi, disordini, povertà e malattie, perlopiù mentali, terminando tragicamente con il suicidio di Faruffini. Nel decennio seguente emergono Mosé Bianchi, Tranquillo Cremona e Daniele Ranzoni. Tutti, o quasi, sotto l’ala di Giuseppe Bertini a Brera, in una Milano che si apre all’Europa ma resta attenta ai pettegolezzi di ringhiera; città industriale e insieme contadina.
Malgrado la bohème meneghina aspirasse a diventare lotta sociale, è nel ceto borghese tanto avversato che questi artisti trovarono committenti e finanziatori, soprattutto per ritratti. Nei salotti buoni e nelle ville sulle rive del lago gli ideali si ingoiavano come rospi.
Nel 1881 Grandi, uno scapigliato di vecchia guardia, vinceva il concorso per la realizzazione di un monumento dedicato alle Cinque Giornate di Milano. Sarà l’apice della sua carriera, e un’ossessione divorante per i restanti tredici anni della sua vita, come per redimere, su una scala mai affrontata, un’intera generazione.
Allievo di Vincenzo Vela all’Albertina di Torino, negli anni settanta, contemporaneamente ai pittori della bohéme milanese, Grandi aveva elaborato un linguaggio espressivo nuovo impostato sulla disgregazione luminosa della forma. I contorni si sfaldavano, aperti alla luce che ne riempiva i vuoti; la materia diventava sensibile alla trascrizione dei sentimenti, sensualissima come i soggetti. Sulle tele le forme si creavano rapidamente, modellando il colore buttato di getto; di contro, «la mano intellettuale di Grandi, mentre scolpisce, colora», dirà Dossi: i limiti tra pittura e scultura si assottigliavano e la spigliatezza del gesto, stigmatizzata dalla critica, assimilava questi artisti contestatari. Sarà Medardo Rosso, più giovane di Grandi di tre lustri, a portare queste idee alle estreme conseguenze. C’è di più: la dissoluzione delle immagini svuotava le opere della retorica cara alla casta dirigente, e metteva alla prova la resistenza e il gusto dei mecenati. Cremona, per esempio, si costringeva a tenere i pennelli solo con la mano sinistra – una fissazione che sarebbe piaciuta a Wittkower – perché la destra, troppo esercitata e diligente, avrebbe tracciato linee troppo nette. Ovviamente, l’effetto sfumato dava l’impressione del non finito e per quelle tele pressappoco illeggibili il pittore veniva costantemente biasimato.
Nel suo monumento, l’equilibrio di forma e colore, tra la superficie increspata del bronzo patinato e il marmo, è ricondotto da Grandi a una sinfonia musicale: piantato sopra un’imponente scalinata l’obelisco, cosparso dei nomi dei caduti, ha attorno una girandola di figure che gli balzano addosso in contrappunti ritmici di pieni e vuoti, in un’ascesa verticale e serpentinata. Le radici dell’idea affondano nel Barocco, ma anche nelle esplosioni sentimentali dell’opera lirica. Chiunque doveva essere coinvolto dal pathos di quella spirale di bronzo (e fa specie ancora oggi, malgrado il monumento sia irraggiungibile, isolato dal traffico di auto e tram).
Nei dettagli e nella messa in scena delle emozioni Grandi ha riversato anche i propri tormenti: tutto è stato studiato in modo maniacale, e le figure sono riprese da modelli viventi perché il loro carattere fosse il più reale possibile. Ma per far rivivere l’intimità dei sentimenti delle Giornate, l’ansia della riscossa e il dolore per le perdite, tutte le parti del monumento, anche le più minute, erano ricavate da lunghe sedute di posa e sottoposte a mesi di studio ossessivo.
I tempi lunghissimi di lavorazione, il viavai, i rumori e i segreti dello studio-fonderia solleticavano i milanesi: gli aneddoti sulla stampa locale si moltiplicavano. Il più gustoso riguarda gli animali (ovviamente vivi) che entravano in atelier per fare da modelli alle sculture. Il leone, simbolo della difesa orgogliosa sulle barricate del ’48, fu acquistato da Grandi ad Amburgo nel settembre 1886. Visse nello studio dell’artista per alcuni mesi. Ma il felino, battezzato Borleo, era anziano, e per sollecitarne delle reazioni utili allo scopo lo scultore lo colpiva con pezzi di gesso e palle di creta. Borleo, anziché ruggire, ingoiava tutto, con un conseguente blocco intestinale che l’artista cercò di risolvere con un rudimentale «medicamento retrospettivo». Lo racconta, e sembra riderne ancora, il suo amico e primo biografo, Ferdinando Fontana. Probabilmente quel clistere leggendario non risolvette nulla, ma fece entrare «el pœr Borleo» e le sue ultime sofferenze nella cultura popolare milanese.
Finito il leone, e spostato l’atelier all’Acquabella, Grandi si procurò un’aquila, anch’essa come modello. Ad essa si unirono numerosi altri uccelli tra cui galline, pavoni, un gallo, una coppia di tacchini, poi gatti, una capra, tartarughe, conigli e due cani, entrambi chiamati Foffa, cioè, in lombardo, robaccia. Lo studio, costantemente visitato da artisti e letterati, diventò una specie di serraglio dove gli animali liberi lottavano tra loro; dove la tacchina «gagliarda», che «non era farina da far ostie», teneva testa all’aquila e per gelosia – lo raccontava Grandi tra le ilarità dei compagni – aveva decapitato con una beccata il povero gallo.
Come consumato dall’impegno del monumento, Grandi muore a Ganna, il paese natale incuneato nell’omonima vallata alle spalle di Varese, il 30 novembre 1894, pochi giorni prima dalla presentazione del suo capolavoro. Aveva cinquantuno anni. Del suo studio non resta quasi nulla, fagocitato dalla città che sale: immediatamente dopo la morte gli eredi lo affittarono a una ditta produttrice di caloriferi, e quasi tutti i modelli lì conservati furono fatti a pezzi per liberare l’ingombro. Ciò che è rimasto, prima di essere donato alle raccolte civiche, è stato conservato per anni accatastato in una stalla: chissà dove finirono gli animali sopravvissuti…

 

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