Gli interpreti, Wole Soyinka.

Non c’è una vera e propria storia; è un pezzo di vita di un gruppo di amici e il loro relazionarsi con l’arte, la Nigeria, la religione, i progetti per il futuro, il post-colonialismo, l’establishment, le donne. A questi girano intorno altri personaggi; nessuno è il vero protagonista del romanzo pur potendo individuare due o tre personaggi principali.

A questo si aggiunga un inizio terribile, una disquisizione dei massimi sistemi del gruppo di amici durante una serata alcolica inframezzato da squarci di altri episodi, messi uno di seguito all’altro senza interruzione. L’effetto è respingente e straniante.

Ma se si ha la pazienza di continuare il romanzo prende forma. Niente di definito, ma un senso magnifico di mettere in discussione sé stessi, uno sviluppo imprevedibile e uno stile di scrittura a volte complesso, ma molto bello, perfetto nei dialoghi (anche se le lunghe disquisizioni alcoliche continuo a odiarle) gustoso nelle descrizioni. Una capacità di scrittura ragionato che, giustamente, ha meritato il Nobel nel 1986.

Da encomiare anche il fatto che questo è uno dei primi romanzi ambientanti in una nazione africana avulso dalla location pur essendone integrato completamente. La Nigeria di questo romanzo non è un obbligo, l’azione potrebbe essere spostata ovunque nel mondo mantenendo tutta la sua forza; ma l’ambientazione è parte integrante pur senza essere un’esotica immagine cartolinesca, la Nigeria non è nelle descrizioni o nelle tradizioni, ma nel rapporto con la religione, nel modo in cui si guarda un albino, nel rapporto con il post-colonialismo e l’estero.