Giorgio Caproni, Esercizi di meditazione

Nato a Livorno, è stato maestro elementare, violinista, traduttore e critico letterario. Nei suoi temi la presenza della città, il sapore del viaggio e il pensiero volto al senso sfuggente dell’esserci
di Maurizio Cucchi
Giorgio Caproni ha saputo essere il poeta sia della narrazione che della meditazione, della trasparenza lieve della parola e della complessità del pensiero di fronte al senso molteplice e inquietante dell’esistere. Entrando nei vari tempi e nelle differenze interne alla sua opera, penso subito a un capolavoro come Il seme del piangere ( 1959), che ci appare sempre più essenziale e necessario, nella proposta di un personaggio femminile, quello di Annina, la cui matrice è la figura materna, che il poeta immagina di veder passare ragazza per le vie di Livorno ( dove Caproni era nato nel 1912), quasi come fosse una dolce fidanzatina. O prega, con commovente delicatezza, come in questi indimenticabili versi, con tratto cavalcantiano, perché un miracolo gliela possa far riapparire: “ Anima mia leggera, / va’ a Livorno, ti prego. /. E con la tua candela / timida, di nottetempo / fa’ un giro; e, se n’hai il tempo, / perlustra e scruta, e scrivi / se per caso Anna Picchi / è ancora viva tra i vivi. / /Anima mia, sii brava / e va’ in cerca di lei./ tu sai cosa darei / se la incontrassi per strada”.
Ma il suo racconto riesce spesso, pur nella viva concretezza delle situazioni, a essere anche metaforico e metafisico. Penso al Congedo del viaggiatore cerimonioso (1965), in cui un personaggio si accinge, dalla semplice realtà di uno scompartimento ferroviario, salutando i compagni di viaggio, a inoltrarsi in un addio verso un altrove al tempo stesso di quotidiana normalità e di totale distacco: “Amici, credo che sia / meglio per me cominciare / a tirar giù la valigia. / Anche se non so bene l’ora / d’arrivo, e neppure / conosca quali stazioni / precedano la mia / Il luogo del trasferimento / lo ignoro. Sento / però che vi dovrò ricordare / spesso, nella nuova sede, / mentre il mio occhio già vede / dal finestrino, oltre il fumo / umido del nebbione / che ci avvolge, rosso / il disco della mia stazione”. Episodi indimenticabili di un autore capace di rinnovarsi e proseguire nella sua ricerca, sempre senza la minima accentuazione enfatica, senza programmi espliciti di poetica, ma spinto da una necessità interiore tanto forte quanto insofferente rispetto a ogni possibile intenzione dichiarativa. In ogni caso un autore di capitoli importanti nella nostra poesia del Novecento. E questo anche in virtù della sua sensibilità naturale per il verso, e per la parola, nel suo valore di senso articolato e di musica, essendo stato, tra l’altro un vero musicista, un violinista (oltre che maestro elementare). La sua natura e cultura anche musicale ben si vedeva fin dalla raffinatezza delle “canzonette” del primo tempo della sua lunga e varia opera.
Quella di Caproni è stata comunque una musica in costante movimento, capace ogni volta di nuove acquisizioni, capace per esempio di passare dalla lievità narrativa alla più grave e asciutta tensione meditativa delle opere dell’età matura, a partire da Il muro della terra (1975), che inaugura in modo netto e sorprendente un nuovo percorso, destinato a svolgersi con ulteriori aperture e approfondimenti nei libri degli anni seguenti, fino alla conclusione del suo itinerario di vita e poesia, alla sua scomparsa, avvenuta nel 1990. Eccoci allora a opere come Il franco cacciatore (1982), Il conte di Kevenhüller (1986), fino a Res amissa, apparso postumo, a cura di Giorgio Agamben, nel 1991. Si è parlato, per questa nuova e sua finale fase, di «ontologia negativa», dell’assenza di Dio, di un «viaggio nel nulla» (Mengaldo, a cui si deve anche il sostanzioso saggio introduttivo al Meridiano dell’Opera in versi di Caproni), con il tema della grande caccia allegorica dove preda e predatore vengono paradossalmente talvolta a coincidere: “La preda che si morde / la coda… // La preda / che in vortice si fa preda / di sè”.
Una tessitura sottilissima, realizzata in pagine e singoli testi di estrema asciuttezza espressiva, in una sorta di «rarefazione luminosa» (Raboni ) del racconto. Un racconto condotto in un costante rapporto tra densità della parola e circostante silenzio, evidente anche nella brevità potente del verso, in un dire epigrammatico, mosso da un progetto-ossessione sulla nostra umana condizione di transitanti in un emblematico, spoglio e suggestivo paesaggio astorico. Il viaggio perviene a un ultimo borgo, dove ognuno arriva “a un tavolo / d’osteria / avvolto nella nube vuota / dei suoi pensieri”. Mentre nel lascito di Res amissa sboccia il pensiero di un misterioso dono perduto: “Tutti riceviamo un dono. / Poi, non ricordiamo più / né da chi né che sia. / Soltanto ne conserviamo / – pungente e senza condono – / la spina della nostalgia”.
Possiamo – dobbiamo – dunque, tornare a un poeta che tanto ci ha dato in profondità complessa e nel prodigio elegante e mobilissimo dello stile e dei registri, passando dall’ariosità lieve alla densità poematica, dal tono popolaresco alla raffinatezza ricercata (eppure mai artificiosa), dalla ripresa della tradizione alla formulazione di nuove soluzioni nella forma mirabilmente contratta degli ultimi libri. Giorgio Caproni è stato anche un poeta che nei suoi temi – dalla presenza della città (come Livorno e come Genova) al senso del viaggio, dall’invenzione narrativa al pensiero volto al senso sfuggente dell’esserci, ha saputo darci versi spesso di una memorabile e delicatissima trasparenza, come questi, giustamente celebri, di Alba, dal Passaggio d’Enea (1956): “Amore mio, nei vapori di un bar / all’alba, amore mio che inverno / lungo e che brivido attenderti! Qua / dove il marmo nel sangue è gelo, e sa / di rifresco anche l’occhio, ora nell’ermo / rumore oltre la brina io quale tram / odo, che apre e richiude in eterno / le deserte sue porte?… Amore, io ho fermo / il polso: e se il bicchiere entro il fragore / sottile ha un tremitìo tra i denti, è forse / di tali ruote un’eco. Ma tu, amore, / non dirmi, ora che in vece tua già il sole / sgorga, non dirmi che da quelle porte, / qui, col tuo passo, già attendo la morte”.
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