Giorgio Agamben, sulla soglia del pensiero.

Patricia Peterle

I versi di Dante «l’artista / ch’a l’abito de l’arte ha man che trema», tratti dal Canto XIII del Paradiso, già citati da Agamben in altre occasioni, riecheggiano anche nei suoi due ultimi libri pubblicati sul finire del 2017, Karman e Creazione e anarchia (ancorché, nel primo, non esplicitamente). L’immagine della mano che trema evoca nel suo gesto la contingenza e l’impercettibile o, come si legge in Creazione e anarchia, le tensioni tra «slancio e resistenza, ispirazione e critica». Il tremare è anche resistenza: nella misura in cui l’ispirazione non può essere dominata e padroneggiata in un’abitudine, cioè non si esaurisce nell’atto. L’artista è così senza opera, la sua potenza sta nella potenza-di-non, ossia nell’inoperosità.

Karman propone al lettore un percorso attraverso quattro capitoli («La causa e la colpa », «Crimen e karman», «Le aporie della volontà», «Al di là dell’azione»), introdotti da una pagina in bianco riportante nella parte superiore il titolo, Karman, e un po’ più in basso, nello spazio di solito dedicato all’epigrafe, una domanda-citazione di Franz Kafka: «Come può un uomo essere colpevole?». Lo spazio in bianco che segue indica le innumerevoli risposte possibili a questa domanda inquietante. Al centro della discussione sono i rapporti e i vincoli tra colpa, azione e volontà in momenti diversi nella nostra società e i modi, o per meglio dire i dispositivi, che li legano e cercano di imputare la colpa all’uomo.

Creazione e anarchia a sua volta è composto da cinque saggi («Archeologia dell’opera d’arte», «Che cos’è l’atto di creazione?», «L’inappropriabile», «Che cos’è un comando?», «Il capitalismo come religione», quest’ultimo titolo ripreso da un frammento postumo di Benjamin), che con piccole variazioni riproducono le cinque lezioni tenute all’Accademia di Architettura di Mendrisio fra l’ottobre 2012 e l’aprile 2013. Il secondo saggio, «Che cos’è l’atto di creazione?», era già stato pubblicato nel Fuoco e il racconto (nottetempo 2014); al suo centro c’è uno degli scrittori più cari ad Agamben, Kakfa. Non il Kafka della Metamorfosi, o del Processo (sul quale si apre Karman), ma quello di racconti dagli strani protagonisti: il nuotatore primatista mondiale che ammette di non saper nuotare o Josephine, la straordinaria cantante del popolo dei topi. Kafka, così come Dante in quei versi del Paradiso, fa crollare la percezione dell’arte come sapere o addirittura abito, consuetudine.

Dopo la soglia di Autoritratto nello studio, in questi due libri Agamben riprende alcuni concetti fondamentali del suo percorso di lettore e pensatore. Cosa significa essere responsabili delle nostre azioni? Questo è uno degli interrogativi portanti di Karman, in cui si discute di diritto, pena, morale, libero arbitrio: tutti elementi che sono diventati nell’Occidente paradigmi per la vita umana, e che ora Agamben pone accanto a testi di un’altra tradizione, quella buddista («si tratta di spezzare il nesso che lega il dispositivo azione-volontà-imputazione a un soggetto»). Domanda che ha degli echi anche in Creazione e anarchia, ma che qui potrebbe suonare così: è possibile l’atto della creazione al di fuori dei limiti del comando? Dio creò il cielo e la terra con un comando («E Dio disse: sia fatta luce»), relazione che si trova anche nel Vangelo di Giovanni quando si legge «en archei, nel principio, prima di ogni cosa, può soltanto essere il comando».

Una religione che nasce ogni volta per mantenersi e un capitalismo (culto senza espiazione) che agisce e si attua come religione: sono i due grandi (in)visibili poteri i cui dispositivi sono ormai sparsi e polverizzati. Ed è qui che Agamben precisa la sua scelta: «l’anarchia mi è sempre parsa più interessante della democrazia, ma va da sé che ciascuno è qui libero di pensare come crede». In queste parole riecheggiano Benjamin («Nulla è così anarchico come il potere») e il Pasolini di Salò («La sola vera anarchia è il potere»). Costruzione e distruzione si costituiscono come un’esigenza, di fronte alla profonda anarchia della società in cui viviamo. Seguendo i passi ancora una volta di Benjamin, la giustizia viene intesa come la condizione di un bene che non può diventare possesso: forse proprio per questo diviene decisivo in Agamben, a partire almeno da Altissima povertà (Neri Pozza 2011), l’avvicinamento fra giustizia e povertà (intesa come categoria ontologica). In effetti la povertà, andando oltre la dimensione negativa in cui è stata più volte inserita, è «la relazione con un inappropriabile; essere povero significa tenersi in relazione con un bene inappropriabile».

Kafka viene definito, in Karman, come un autore «che non ha mai cessato di riflettere sul nesso angoscioso che, nella forma della legge, stringe l’azione alle sue conseguenze, la causa alla colpa». L’epigrafe proviene dal dialogo col sacerdote, nel Processo: episodio in cui è riportata la parabola del contadino davanti alla Porta della Legge (elemento-soglia che può far venire in mente una poesia di Giorgio Caproni, da Agamben citata in Idea della prosa); e a questo punto del romanzo si legge una frase che può valere non solo per i testi di Kafka, ma forse anche per quelli di Agamben: «la comprensione di una cosa e l’incomprensione della stessa cosa non si escludono del tutto». Ancora una volta lo spettro della mano che trema davanti a un’esigenza. Come si legge nel terzo capitolo di Creazione e anarchia, «L’inappropriabile», i poeti devono lasciare dietro l’uso comune e le abitudini e «rendersi straniera la lingua [quella intima e propria] che devono dominare». L’appropriazione della lingua diventa paradossalmente un’espropriazione, «in modo che l’atto poetico si presenta come un gesto bipolare, che si rende ogni volta estraneo ciò che deve essere puntualmente appropriato». Estraneità impossibile da trovarsi nel diritto e nella religione, dove il linguaggio è sempre imperativo.

Non è una coincidenza che Kafka abbia richiamato l’attenzione di Walter Benjamin, uno dei riferimenti più importanti per Agamben. Nel decennale della morte di Kafka, così lo citava Benjamin: «ciò che la corruzione è nel diritto, nel loro pensiero è l’angoscia. Essa confonde gli eventi, ed è pur sempre, in essi, la sola fonte di speranza». E commentava: «Kafka è sempre così: egli toglie al gesto dell’uomo i sostegni tradizionali e ha così in esso un oggetto a riflessioni senza fine». Un passo che anticipa le pagine finali di Karman: laddove Agamben critica la considerazione aprioristica che qualsiasi azione presupponga un fine, e che tale fine sia il bene. Già nella Comunità che viene (Einaudi 1990) si leggeva: «Il senso dell’etica si chiarisce solo quando si comprende che il bene non è e non può essere una cosa o una possibilità buona accanto o al di sopra di ogni cosa o possibilità cattiva». In Karman il gesto diventa, semplicemente, ciò che un corpo può fare: la vita «è ciò che si produce nell’atto stesso dell’esercizio come una delizia interna all’atto, come se, a furia di gesticolare, la mano trovasse alla fine il suo piacere e il suo “uso”, l’occhio a forza di guardare s’innamorasse della visione, le gambe, piegandosi ritmicamente, inventassero la passeggiata».

Agamben rovescia il rapporto tra colpa e pena, non c’è colpa senza pena: la prima esiste solo in virtù dell’ultima che la sancisce (nel primo capitolo di Karman vengono chiamati in causa, al riguardo, Yan Thomas, Carl Schmitt, Ulpiano, Émile Benveniste). Nel secondo capitolo si ipotizza che il concetto di crimen (azione sanzionata) sia alla base non soltanto del diritto, ma anche dell’etica e della morale religiosa dell’Occidente. Il concetto di volontà, quindi, non sarebbe un dato della natura umana e al contempo non starebbe dalla parte delle libere scelte e delle responsabilità del soggetto. Praticamente sconosciuta al mondo antico, la volontà sarebbe un dispositivo della teologia cristiana che ha fondato l’apparente idea dell’azione libera, cioè il libero arbitrio. La volontà diventa così una specie di mistero esistente alla base dell’azione sanzionabile: senza di essa, tutto il castello dell’etica e della politica moderna crollerebbe. Il volere segna pertanto l’uomo moderno. Un essere di volontà, un soggetto che vuole. Mentre a segnare quello antico è il potere: un essere di potenza, un soggetto che può.

Di fronte a tutti questi dispositivi, in Creazione e anarchia si capisce perché la nostra società abbia bisogno, per mantenersi, della volontà, del bisogno e, di conseguenza, della libertà. La tensione tra volontà e potenza si ritrova in un altro personaggio caro ad Agamben, Bartleby, lo scrivano di Melville. Bartleby risponde all’avvocato – uomo di legge – I would prefer not to: formula agrammaticale che, come aveva già accennato Deleuze, rende la lingua straniera e straniante e mette in evidenza la sua volontà e la sua potenza.

Nell’archeologia del gesto di Karman scrive Agamben: «A ogni essere umano è stato consegnato un segreto e la vita di ciascuno è il mistero che mette in scena questo arcano, che non si scioglie col tempo, ma diventa sempre più fitto. Fino a mostrarsi in ultimo per quello che è: un puro gesto, come tale – nella misura in cui riesce a restare mistero e non si iscrive nel dispositivo dei mezzi e dei fini – ingiudicabile». L’espressione «mettere in scena» sta a indicare quello che viene subito dopo, cioè appunto il gesto. Dalle letture di Varrone a proposito della lingua latina, si arriva a un «terzo genere di azione»: «fare [facere] qualcosa e non agire [agere], come il poeta fa un dramma e non lo agisce [facit fabulam et non agit: agere […] al contrario l’attore [actor] agisce il dramma e non lo fa». E sulla stessa linea, in Creazione e anarchia: «il mio corpo che mi è dato originariamente come la cosa più propria, solo nella misura in cui si rivela essere assolutamente inappropriabile».

Il gesto dunque, in Karman, è un «terzo modo dell’attività umana» che rompe il nesso tra il fare e il fine; esso è un mezzo puro. Risuona di nuovo il saggio di Benjamin su Kafka: «Una delle funzioni più importanti di questo teatro naturale è la risoluzione dell’accadere nel gesto». Il gesto si profila come «un’attività o una potenza che consiste nel disattivare e rendere inoperose le opere umane e, in questo modo, le apre a un nuovo e possibile uso». Perciò il gesto espone e al contempo contempla «la sensazione nella sensazione, il pensiero nel pensiero, l’arte nell’arte, la parola nella parola, l’azione nell’azione». Ora si può capire l’impossibilità di fissare il gesto in un’unica e identificabile azione e, di conseguenza, l’impossibilità di definirne il soggetto. Perciò Agamben predilige le maschere ai personaggi, come si legge in Mezzi senza fine (Bollati Boringhieri 1996) e in Pulcinella ovvero Divertimento per li regazzi (nottetempo 2015): «Il suo gesto è la liberazione del carattere empirico da ogni riferimento a un carattere intellegibile e del carattere intellegibile a ogni funzione di imputazione giuridica o morale».

L’inoperosità diviene dunque una politica dei mezzi puri, ossia «lo spazio – provvisorio e, insieme, intemporale, localizzato e, insieme, extraterritoriale – che si apre quando i dispositivi che legano le azioni umane nella connessione dei fini e dei mezzi, dell’imputazione e della colpa, del merito e del demerito, sono resi inoperosi». In questa prospettiva, ogni uso può essere visto come un gesto, appropriazione e abito; e, al contempo, perdita ed espropriazione. La riflessione di Agamben si apre così verso un nuovo soggetto etico. Un abitare che si fa tra patria e esilio, le cui tracce probabilmente possono essere colte nell’ultimo paragrafo di Note sul gesto: «La politica è la sfera dei puri mezzi, cioè dell’assoluta e integrale gestualità degli uomini». Segue, non a caso, uno spazio tutto bianco, che ora può aprirsi e dispiegarsi e «pensare diventa nuovamente possibile».

Giorgio Agamben