Gianni Gennari Il prete che consigliava Berlinguer e infine prese moglie «Papa Wojtyla scrisse “positive” sul fascicolo che gli portò Ratzinger»

 

di Stefano Lorenzetto

Papa Luciani, non certo un progressista, lo chiamava «il mio Gennarino». Il resto della Chiesa, o quasi, «comunista», «eretico», «sovvertitore della fede», «negatore del catechismo», «traditore dei sacri ordini». «La terrorista nera Francesca Mambro l’8 marzo 1978 mi sputò in faccia, urlandomi: “Prete rosso, a te t’ammazziamo!”. In tempi di coronavirus sarei morto», sorride Gianni Gennari, 80 anni, che dal 1984 è pure un sacerdote sposato. Il resto venne di conseguenza: fuori dal Seminario minore, privato della cattedra di Teologia morale alla Lateranense, cacciato dal Pontificio istituto Marianum, estromesso dal liceo Giulio Cesare di Roma dove insegnava religione: «I 700 studenti raccolsero 10 fogli protocollo di firme affinché restassi e il preside presentò ricorso alla Corte costituzionale, ma perse». Adesso un’inaspettata riabilitazione: un suo testo, censurato nel 1975 per eresia dall’ex Sant’Uffizio, diventa un libro, Gesù Cristo: «rivoluzione» di Dio, pubblicato dalle Edizioni Vivere. In di padre Leonardo Sapienza, reggente della Casa pontificia, il collaboratore più vicino a papa Francesco dopo che il prefetto Georg Gänswein è passato ad altro incarico.

Il virgolettato del titolo dice tutto.

«Mai stato rivoluzionario. Anzi, per i teologi progressisti ero conservatore».

Però comunista.

«Ho sempre votato a sinistra, turandomi il naso. Solo la prima volta scelsi la Dc. Ero amico di Enrico Berlinguer. Il suo braccio destro, Tonino Tatò, veniva alla mia messa festiva con Franco Rodano e Mario Melloni, il Fortebraccio dell’Unità. In ossequio alla scomunica del Pci decretata dal Sant’Uffizio, dal 1949 i primi due si erano astenuti dalla comunione. A volte si univa Letizia, la moglie di Berlinguer. Con il quale lavorai alla famosa lettera spedita nel 1977 al vescovo Luigi Bettazzi, che sfociò nella revoca della professione di ateismo marxista-leninista dallo statuto del Partito comunista».

Quindi Berlinguer ora sarà in paradiso, in purgatorio o all’inferno?

«Secondo me è in paradiso. Andai a parlare a 5.000 comunisti nella piazza di San Polo d’Enza. “Raccontagli di Gesù”, mi esortarono i capi del Pci locale. Alla fine contadini e operai mi avvicinavano: “Ma allora posso credere! Mi confessi?”».

Nei giorni del sequestro Moro teneva i rapporti fra Berlinguer e Zaccagnini.

«Quante notti ho passato pregando con Benigno. Durante i funerali dello statista, partecipò alla messa che celebrai sul tavolo da cucina dei Brigante, i parenti presso i quali il segretario della Dc abitava quando veniva a Roma».

Perché lei era ritenuto un marxista?

«All’esame di vocazione monsignor Pier Carlo Landucci, ora avviato a diventare beato, mi chiese: “Ti sono più simpatici i liberali o i comunisti?”. Risposi: mio padre è falegname, ha costruito i banchi per il Concilio Vaticano II, e io da piccolo mi vedevo netturbino, dunque… Non voleva ammettermi al sacerdozio».

Se invece avesse votato per il Pli, sì.

«La sua frase preferita era: “Quando fischio io, fischia Dio”. Per Landucci il prete era un “viceddio”, titolo che il Belli dava al Papa. Tanti guasti nel clero, pedofilia compresa, nascono da qui».

Giovanni Paolo I la apprezzava.

«Mi voleva bene. Da cardinale aveva problemi di gotta, mi chiedeva di accompagnarlo in lunghe passeggiate. Ignoro se sia morto per aver sbagliato la dose di una medicina, come mi assicurò un benedettino la mattina in cui lo trovarono cadavere. So che fra le mani teneva una riforma della Chiesa, sulla quale la sera prima aveva litigato con il segretario di Stato, il cardinale Jean-Marie Villot».

Per Wojtyla era «l’uomo con i baffi».

«Mi vedeva predicare su Video Uno, tv vicina al Pci. I baffi senza la barba erano vietati, in quanto considerati segno di vanità. Il cardinale Pericle Felici non li sopportava: “Promettimi che te li taglierai prima che io mi congedi dal mondo”. Alla fine obbedii: quella sera stessa il porporato morì. Da allora non li ho più fatti ricrescere. Fu Giovanni Paolo II nel 1984 a scrivere “positive” sul mio fascicolo giacente da più di un anno al Sant’Uffizio, dandomi la dispensa “pro gratia” che mi consentì di sposare Annamaria. A portarglielo fu Joseph Ratzinger».

Come conobbe la sua futura moglie?

«Era tecnica del suono in una radio dove tenevo una rubrica religiosa».

Sposato, ma favorevole al divorzio.

«Credo nell’indissolubilità del matrimonio. Rifiutai il referendum voluto da Amintore Fanfani per calcolo elettorale».

Quindi, se non andasse più d’accordo con sua moglie, divorzierebbe?

«No, dialogherei. Le cascate vanno fermate quando sono ancora ruscelli».

Perché Cristo sarebbe la «rivoluzione» di Dio, come da titolo del libro?

«Dio non l’ha visto mai nessuno. Però lo riconosciamo nel prossimo. Che è Gesù. Ce lo dice Egli stesso: “Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare”. L’unica immagine di Dio è l’uomo vivo».

Dio è onnipotente, l’uomo no.

«È anche onnisciente. Ma ha messo il mondo nelle nostre mani. La natura ha le sue leggi. A volte i miracoli possono cambiarle. Papa Francesco lo ha spiegato più volte: nel capitolo 25 di Matteo c’è l’essenza assoluta della rivelazione».

Nel suo primo viaggio all’estero, Bergoglio aveva con sé una borsa nera con dentro il rasoio, il breviario, l’agenda e un suo libro su santa Teresa.

«Glielo portai io. È devotissimo a Teresina, dottore della Chiesa. (Me ne indica il ritratto appeso nello studio). Dopo che morì di tisi a 24 anni nel carmelo di Lisieux, le sorelle Celina e Agnese falsificarono le carte per farne una santa di piccole virtù. Invece è un gigante. L’unica risposta possibile a Freud, Nietzsche e Marx. Capì che Dio è amore e basta».

Persi la cattedra per aver difeso la legge sul divorzio. Non sapevo che cosa fosse un conto corrente: me lo spiegò Maurizio Costanzo

Francesco sui preti sposati ha chiuso.

«Però le cose camminano, il processo è avviato. La Chiesa non è la padrona dell’eucaristia. È Cristo il padrone della Chiesa. Una comunità amazzonica non può restare senza comunione perché il prete va a trovarla solo una volta l’anno».

Ricorda la sua ultima messa?

«Come se fosse oggi. Santo Stefano del 1982. I parrocchiani piangevano. Recandomi in chiesa con l’auto, la leva del cambio si spezzò. Mi parve un segno».

L’ha mai più celebrata?

«Lo feci soltanto una volta per un gruppo di laici radunati a Collevecchio».

Un abuso.

«Non credo. Il prete era stato coinvolto in un incidente. E a Parigi ho dato l’assoluzione in articulo mortis a un sacerdote infartuato. Mi è spirato fra le braccia».

Smessa la talare, che accadde?

«A 39 anni restai senza stipendio. Poco male. La sera prima che mi ordinassero prete, il vescovo Luigi Rovigatti, un sant’uomo, mi aveva raccomandato tre cose: “Sta’ vicino alla famiglia. Cura la salute. Fa’ in modo che non ti si attacchino mai i soldi alle mani”. La promessa di povertà è la meno osservata dal clero».

E come campava?

«Il cardinale Ugo Poletti mi offrì uno stipendio sottobanco. Rifiutai. Cominciai a tenere una rubrica per L’Occhio di Maurizio Costanzo. Dopo qualche mese, la segretaria del direttore voleva farmi un bonifico, ma io non capivo di che parlasse. Mi telefonò Costanzo: “Ma come? A 40 anni non hai un conto corrente?”. Andai al Banco di Santo Spirito. L’impiegato mi chiese: “Quanto vuole depositare?”. Cinquanta, risposi. “Milioni?”. No, 50.000 lire. Scoppiò a ridere».

Chi la prese in Rai come vaticanista?

«L’avvocato Domenico D’Amati, nel senso che dopo 17 anni di precariato dovetti andare in causa. Sandro Curzi, direttore del Tg3, la tirava per le lunghe: “Sei bravo, ma a te chi te porta? Chi me ringrazia si te pijo? Er Vaticano dice che sei spretato, la Dc che sei comunista, il Psi che sei cattocomunista. Come faccio a pijatte?”. Scrivevo le domande per Mixer di Giovanni Minoli. Era entusiasta: “Dove hai imparato la tecnica dell’intervista?”. Non so, forse in confessionale».

Non aveva proprio santi in paradiso?

«L’unico contatto con i vertici della Rai lo ebbi un Ferragosto. Ero in servizio da solo nell’ufficio stampa. Mi telefonò il figlio del presidente Enzo Siciliano, nominato il giorno prima. Pretendeva che mandassi una squadra di tecnici da Roma a installare l’antenna tv nella casa di vacanza del padre a Todi. Non lo feci».

Ha incontrato ancora Bergoglio?

«Sì, alla messa per i miei 50 anni di sacerdozio, che ora sono diventati 55».

Ha più contatti Eugenio Scalfari.

«Sono atti di carità del Papa. Certi svarioni nei resoconti dei loro incontri… Scalfari mi avrebbe voluto a Repubblica, ma don Gianni Baget Bozzo pose il veto».

È strano che un ex prete festeggi l’anniversario della sua ordinazione.

«Ma io sono prete! Mi sento ancora tale, seppure in pausa. Nei 22 riti della Chiesa, solo quelli romano e ambrosiano non ammettono i sacerdoti sposati».

Quali peccati sessuali ritiene mortali?

«L’infedeltà coniugale. La pedofilia. La pornografia che abusa dei corpi».

Perché la Chiesa parla poco dei Novissimi: morte, giudizio, inferno, paradiso?

«Difetta degli strumenti linguistici per risultare credibile all’uomo di oggi».

In compenso lei chiude il libro con un capitolo sulla «teologia della morte».

«Mi fu censurato pure quello per eresia. Sono felice che il reggente della Casa pontificia lo abbia giudicato attuale. Se la morte perde il suo significato, la vita stessa perde il suo significato. È un esame supremo, glielo assicura uno che è stato in coma otto mesi per una meningite tubercolare e altre tre volte in procinto di andarsene. Del resto, il cardinale vicario Luigi Traglia mi disse: “A Gennà, ancora nun l’hai capito che a Roma, si voi campà, devi fa’ er morto?”. Morire è chiudere gli occhi per vedere meglio».

 

www.corriere.it