di Pierluigi Piccini
La nazione del 25 gennaio riporta un articolo sulla rinuncia di Marco Pierini alla corsa per la direzione della Pinacoteca di Siena. Al di là delle motivazioni riportate da Pino di Blasio, su una è bene soffermarsi: quella relativa al fatto che al direttore della Galleria di Perugia non sarebbe piaciuta la tipologia del terzo settore scelta dal Comune per la Fondazione Santa Maria della Scala. Critica, questa, che non appartiene solo al Pierini, e sulla quale conviene fare alcune personali considerazioni. Se potessi scrivere in questo articolo museo con una croce sopra, come fa Heidegger per l’essere, lo farei immediatamente. Il museo gira che ti rigira è sempre figlio -così come lo viviamo oggi e oltre Ronchey o Franceschini – di una logica tradizionale e sempre più quantitativa. Le aggiunte che sono state fatte, di fatto non cambiano l’impostazione neo positivistica della conservazione. E anche il ricorso alle tecnologie più o meno nuove non cambiano sostanzialmente il rapporto fra utente e l’opera d’arte. La migliorano sicuramente, ma rimangono espressione di una visione fatta di separazioni gerarchiche, difficilmente superabili. Le trasformazioni, che avvengono all’esterno dei rapporti sociali, non sembrano influire sull’organizzazione dei modelli organizzativi dei musei. In sostanza, si rimane dentro una logica della divisione sociale che il capitale ha messo in essere, che esso stesso ha superato nel tempo e sta ulteriormente oltrepassando, senza che tutto ciò influisca sulla gestione museale. Ciò che sta accadendo non è la semplice “trasformazione dei mezzi di produzione per combattere la caduta tendenziale del saggio del profitto attraverso una nuova accumulazione” (cit. Rosa Luxemburg), ma la bioeconomia che usa il digitale come supporto. Per fare un tuffo teorico bisognerebbe rileggere alcuni passaggi di “Americanismo e Fordismo” di Gramsci, soprattutto quando l’autore analizza la nuova organizzazione della società americana attraverso i concorsi di bellezza. Oggi siamo di nuovo di fronte a cambiamenti, ma profondamente diversi da quelli passati. Le persone nei loro comportamenti anche involontari, accumulano capitale (Shoshana Zuboff, “Il Capitalismo della Sorveglianza, il futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri”). Processo di accumulazione che non è ovviamente solo strettamente economico, nutrendosi di socialità e di cultura. Questo processo apre contraddizioni? Sicuramente si. Sono antinomie che non interessano, ovviamente, alle ideologie conservatrici, ma che vedono “distratta” anche la parte progressista della società. La domanda che, viceversa, sta prendendo sempre più corpo – non a caso uso questo termine – è la persona che necessita di servizi sempre più a largo raggio nel proprio vivere, nello spazio e nel tempo. Cosa che sta già interessando la programmazione territoriale, ad esempio sul significato di Pubblico e di Bene pubblico. Spazio e tempo che ormai non possono più essere letti in una concezione tradizionale e statica. Letture come “In the Flow” di Boris Groys o sempre dello stesso autore “Art Power” possono aiutare alla comprensione. Ma allora cosa c’entra il terzo settore? È un tentativo che, se letto insieme al recepimento della direttiva europea, potrebbe portare a dei risultati interessanti e ad una visione del museo non tradizionale e fortemente legata al contemporaneo. Già, ma chi educa l’educatore?