ALZI LA MANO chi non si è sentito anche solo un attimo così spaesato davanti alla gioia di rivedere il mare o di passare una serata con gli amici dopo il lockdown di questi ultimi tempi, una strana malinconia che prende alla gola al pensiero che quel gesto costituisce un’eccezione.
È accaduto anche varcando, in quest’estate assolata, la soglia di musei poco frequentati (venti persone dentro la Sistina si potevano trovare solo durante una visita privata), o di mostre, tra cui Georges de La Tour e l’Europa della luce, curata da Francesca Cappelletti e Thomas Clement Salomon (catalogo Skira), la cui apertura al Palazzo Reale di Milano è stata prolungata al 30 settembre.
Nonostante il recupero della sua personalità conti poco più di un secolo, Georges de La Tour (Vic-sur-Seille 1593 – Lunéville 1650) è ormai tra i pittori più popolari del Seicento, e recentemente il Prado gli ha dedicato una importante monografica esponendo almeno due terzi dei suoi dipinti.
LA MOSTRA MILANESE sembra esserne consapevole e non intende fornire la chance di un recupero per i molti che nel 2016 non sono passati per Madrid, ma affronta un problema assai diverso. Si interroga sul ruolo dell’artista nella pittura europea del suo tempo e sulle strade per le quali egli giunse a sviluppare una poetica così personale.
Il tema non è dei più piani: gli storici dell’arte ci si sono scontrati ripetutamente. L’apripista fu un gigante degli studi sul Seicento europeo, Hermann Voss, che nel 1915 radunò tre dipinti sotto il nome dell’allora sconosciuto artista: due conservati al Museo di Nantes – uno dei quali, la Negazione di Pietro, convocato a Palazzo Reale, è firmato (come l’Apparizione dell’Angelo a San Giuseppe), e datato 1650 – e un terzo, il Neonato al Museo di Rennes.
IL NOME di Georges de La Tour era all’epoca già noto grazie alle ricerche archivistiche di fine Ottocento di Alexandre Joly, e compariva anche in una stampa relativa a una diversa versione della tela di Rennes, ma nessun biografo antico lo aveva gratificato di un rigo. La scoperta e l’eccezionale qualità dei dipinti dell’artista non sfuggirono a Paul Jamot e al suo giovane e brillante collaboratore Charles Sterling, che esposero queste ed altre tele alla storica mostra Les Peintres de la réalité en France au XVIIe siècle, inquadrando acutamente il pittore nel filone del realismo francese insieme ai fratelli Le Nain.
Da allora gli studi sul bizzarro genio lorenese si infittirono culminando nella bellissima esposizione allestita all’Orangerie nel 1972, curata da Pierre Landry con la collaborazione di Jacques Thuiller e Pierre Rosenberg, ai quali dobbiamo la risistemazione storico-critica del percorso di La Tour. Successivamente non mancarono approfondimenti e occasioni espositive, tra cui ricordo la mostra di Washington Georges de La Tour and His World che condivideva, con quella ora in cartellone a Milano, il tentativo di inquadrare il pittore in una rete di relazioni e contatti che dessero ragione del suo stile.
DA SUBITO FU CHIARO che in La Tour convivevano due anime, evidenti anche ai visitatori della mostra milanese. La prima si sostanzia in una pittura in chiaro con dettagli realistici, «comici» nell’accezione squisitamente seicentesca del termine (che sconfina cioè in «realistici»), drammatici agli occhi di noi uomini e donne del secondo millennio, come risulta chiaro ne La rissa tra musici e mendicanti, del Paul Getty Museum di Los Angeles, prestito eccezionale che, da solo, varrebbe il viaggio a Milano. In essa due mendicanti, o meglio due bande di mendicanti (giacché uno è accompagnato dall’anziana compagna, che si incide nella memoria dello spettatore per il suo gesto di spavento e insieme di preghiera, e l’altro dai colleghi suonatori), disputano forse per accaparrarsi il territorio dove esercitare il mestiere. L’anziana atterrita e il suonatore ammiccante di destra fanno da coro degno di una tragedia greca al gesto tragicomico di uno dei lottatori, che spruzza il succo di limone negli occhi del finto cieco per svelarne l’inganno. Non a caso negli antichi cataloghi il dipinto era attribuito a Caravaggio: formato, taglio compositivo, registro tragicomico rimandano infatti inequivocabilmente all’esempio del pittore lombardo.
ALLO STESSO MODO l’altra anima della pittura di La Tour, le scene «a lume di notte», come vengono indicate nella letteratura del tempo, si connettono al magistero del Merisi. Esse sono ben rappresentate in mostra, ad esempio dalla Maddalena penitente di Washington, cui è dedicata la prima sala, o dai Giocatori di Leopoli (anche questo un prestito assai raro), o dal superbo Giobbe deriso dalla moglie di Epinal, un capolavoro che nella sua straordinaria concezione luministica e immedesimazione psicologica raggiunge vertici di astrazione inauditi, tanto che è impossibile non ricordare un saggio di Mina Gregori, che nel 2000 evocava le lunghissime radici del luminismo caravaggesco, connettendolo alla «pittura di luce» di Piero della Francesca.
E LA DOMANDA bruciante aleggia nell’aria: La Tour, che sembra non aver mai lasciato la Lorena, se non per una breve parentesi (1639-’41) in cui divenne a Parigi pittore di corte (commensal du roi) di Luigi XIII, poté avere informazioni di prima mano sui fatti caravaggeschi italiani? Secondo Gianni Papi, che scrive in catalogo, sussistono pochi dubbi: egli andò presto in Italia e vide a Roma con i suoi occhi i dipinti di Caravaggio. Meno certa è altra parte della critica, per la quale basterebbero alcuni caravaggeschi retour de Rome per le strade della Francia e delle Fiandre ad avere innestato il germe del naturalismo nella pittura di questo genio di periferia.
E di riferimenti europei la mostra ne evoca parecchi, dall’ineludibile Gherardo delle Notti, alle incisioni di Jacques Bellange a Trophime Bigot, la cui sintesi formale si avvicina certamente ai risultati di Georges, se è lui l’autore del bellissimo San Sebastiano curato da Irene della Pinacoteca Vaticana (anch’esso in mostra), e non piuttosto quel Maestro Giacomo che oggi si tende a identificare con il romano Giacomo Massa. Su questo fronte più che imporre una linea, la mostra offre spunti visivi allo spettatore per consentirgli di verificare la pertinenza di certe suggestioni stilistiche con lo sguardo del genio. Si tratta di una cautela che può essere feconda di nuove idee, senza attutire la dirompente novità delle invenzioni di La Tour, la cui penetrante umanità misteriosamente riannoda gli animi di chi guarda, fino alla profondità della comune domanda di un senso: la bellezza di La Tour nella Milano deserta di questa insolita estate scioglie anche un po’ della strana tristezza dell’inizio.