Fukuyama: «Dal virus rischi per le democrazie I nuovi poteri speciali tentano molti leader»

di Massimo Gaggi

 

STANFORD (California) «La democrazia liberale è sotto grave stress da un decennio e la pandemia che, come tutte le crisi, ha conseguenze impreviste, riduce ulteriormente gli spazi di libertà. L’attacco terroristico dell’11 settembre 2001 ha spinto gli Stati Uniti a combattere due guerre che nessuno voleva, mentre il crollo finanziario del 2008 ha alimentato il populismo e i movimenti anti establishment. Stavolta il coronavirus è stato usato dai governi per espandere la loro autorità esecutiva, riducendo di fatto la libertà dei cittadini in tempi d’emergenza sanitaria. Una perdita che non sarà solo momentanea: molti leader che non vogliono rinunciare a questi nuovi poteri».

Incontro Francis Fukuyama, lo storico di Stanford autore del celebre e discusso La fine della storia e di molti altri saggi in un bar all’aperto fuori dall’ateneo della Silicon Valley, ancora off limits per i visitatori. I suoi giudizi tranchant di un tempo soo stati rimpiazzati da riflessioni più pacate e anche da qualche reticenza autoironica. È convinto che il successo di Biden non sia un fuoco di paglia, ma non si sbilancia nei giudizi sull’Europa: «A giugno dello scorso anno ero convinto che si stesse aprendo un nuovo ciclo ancora dominato dall’influenza di Angela Merkel. Previsione sbagliata, meglio non farne altre».

E sul conflitto tra Israele e palestinesi?

«Lo studio da 40 anni: da quando lavoravo al Dipartimento di Stato durante la presidenza Reagan. Ho visto quei rapporti deteriorarsi sempre più con Israele che, moltiplicando gli insediamenti nei Territori occupati, ha reso ormai di fatto impossibile una soluzione basata su due Stati. Con l’accelerazione degli ultimi 4 anni, avvenuta con la benedizione di Trump, Israele si è privato di un’opzione di accordo politico per arginare la crisi. È rimasto solo l’uso della forza: non vedo vie d’uscita».

Solo conseguenze negative dalla pandemia?

«No, può venirne anche qualcosa di buono. La sottovalutazione del virus e la pessima gestione dell’emergenza sanitaria ha messo a nudo la pochezza di alcuni leader populisti e sovranisti che sembravano invincicibili: vale per Stati Uniti, Brasile, India e anche Messico. Senza il Covid Trump avrebbe vinto le elezioni. Invece ora Biden sta avviando un nuovo ciclo, fatto di ritorno del welfare e di investimenti pubblici in infrastrutture e ambiente. Ecco: l’altro grosso effetto della pandemia è il rilancio del ruolo dello Stato. Come investitore e come regolatore».

Potrebbe essere una svolta di breve respiro: molti si aspettano una riscossa repubblicana alle elezioni di mid term,tra un anno e mezzo.

Israele

Israele, moltiplicando gli insediamenti nei Territori, ha reso impossibili i due Stati

«Non credo ma qui bisogna distinguere: sul piano economico il pendolo ha sicuramente cambiato direzione. Nel Dopoguerra abbiamo avuto un forte ruolo dello Stato, tra investimenti e protezione sociale. Poi con Reagan, dal 1980, il pendolo si è mosso in direzione opposta: verso il capitalismo liberista, darwiniano. Ora stiamo tornado all’interventismo statale e all’attenzione per il welfare. È importante il ruolo di Biden pressato dalla sinistra democratica, ma il pendolo ha cambiato direzione anche per i repubblicani: Trump col suo populismo aveva già imposto la virata. Il nuovo presidente ha un’autostrada davanti, anche se il Congresso non approverà per intero il suo piano che prevede una spesa complessiva di 6 mila miliardi. Biden sta, però, commettendo un grave errore».

Quale?

«Le politiche di spesa sono popolari e sono ormai accettate anche a destra, ma lui dovrebbe riequilibrarle rassicurando i conservatori su altri terreni: non dando spazio alla cosiddetta woke culture della sinistra radicale e alla pressione per tagliare i fondi per le polizie o per cancellare di retaggi storici controversi. I miei amici che votano repubblicano non amano Trump ma temono queste derive ideologiche della sinistra».

Lei ha appena scritto un saggio sull’ascesa della Turchia di Erdogan, divenuta potenza regionale grazie alla tecnologia dei droni. Da dove nasce questo suo interesse?

«Nel tempo libero mi diverto con l’hobby dei droni e da quando ho cominciato a usarli, dieci anni fa, mi sono reso conto che questa tecnologia, allora nelle mani di Stati Uniti e Israele, prima o poi sarebbe stata usata anche da altri Paesi, cambiando i rapporti di forza e la natura stessa dei conflitti terrestri. La Turchia, che ha ottenuto la tecnologia dei droni da Israele e poi ha sviluppato una sua industria, oggi, usando mezzi poco costosi e senza rischiare le vite dei piloti è intervenuta con efficacia in vari conflitti. A Idlib, in Siria, ha bloccato l’offensiva delle truppe di Assad appoggiate dalla Russia. In Libia ha bombardato la base aerea del generale Haftar, alleato degli Emirati. In Somalia ha riempito il vuoto lasciato dal minor impegno degi Usa. E a settembre Erdogan è intervenuto nel conflitto per il Nagorno Karabakh a fianco dell’Azerbajian, cotro l’Armenia. I droni turchi hanno distrutto 200 carri armati, 90 autoblindo e 182 pezzi d’artiglieria».

L’ha studiata a fondo! Conclusioni che vadano oltre il ruolo della Turchia?

I droni

La tecnologia dei droni sta obbligando gli stati maggiori a ripensare i conflitti terrestri

“Questa tecnologia sta obbligando gli stati maggiori a ripensare i conflitti terrestri, l’occupazione del territorio, l’impiego di truppe e mezzi blindati. Vedremo qualcosa di simile a quello che è accaduto nei mari quando l’arrivo delle portaerei rese obsolete e vulnerabili le corazzate, fino ad allora cuore di ogni flotta. E la stessa Turchia sta vendendo i suoi droni all’Ucraina che li userà per respingere gli attacchi dei tank russi”.

 

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