“ C’è quello che c’è” è uno scritto inedito che risale al 2012, il periodo dell’album Apriti Sesamo, nato da conversazioni con Elisabetta Sgarbi ed Eugenio Lio. E da lui regalato a Linus.
di Franco Battiato
Parlare in modo esplicito di certi argomenti mi sembrava un tradimento e mi lasciava un residuo di pentimento. Invece da un po’ di tempo a questa parte penso che uno debba, con le dovute cautele, manifestare le proprie idee. Se sei un cercatore di verità, devi dire la verità, non puoi fingere. Però, se la verità la dici a uno che non è in grado di recepirla, puoi danneggiarlo. Sono faccende delicate. Quando qualcuno mi fa domande sulla meditazione, spiego un po’ la tecnica e dico sempre: “ Provala. Ma se senti qualcosa di strano, disturbi di natura nervosa, e non hai un maestro, smetti subito”. “Siamo esseri abitudinari, amiamo il conosciuto e abbiamo paura dell’Ignoto… ma è proprio l’Ignoto che dovremo raggiungere”.
Nel 1969 cominciò per me una crisi benedetta. Mi capitava di vedere gli esseri umani come per la prima volta. Non li riconoscevo. È preoccupante quando, da un momento all’altro, ti chiedi: “Ma questi chi sono? Da dove arrivano?” A volte viaggiando in autobus, dovevo scendere, tanto mi sentivo male. Di notte mi percepivo come masse di colori intensi e violenti. La situazione stava prendendo, secondo la mia ignorante ragione, una piega preoccupante. Non avevo capito la fortuna che mi stava capitando. Comunque non mi persi d’animo. Incominciai stendendomi per terra, supino, con gli occhi chiusi. Senza sapere perché, avevo iniziato a praticare una specie di meditazione selvaggia. A poco a poco scopersi che potevo “viaggiare dentro” e riempire di energia il mio spazio interiore. Non sapevo dove stavo andando, però sentivo che quel “gioco” era interessante. Ne parlai con il mio discografico, il quale mi diagnosticò un esaurimento nervoso. Mi diede l’indirizzo di un analista in corso di Porta Romana. All’epoca credevo a quello che mi dicevano, così presi un appuntamento. Lo psicoanalista mi chiese cosa pensavo di avere, e io risposi: “Mi sento come se avessi le cellule scoperte, senza protezione, ogni cosa che osservo, mi risulta evidente ma difficile da accettare”. “Vabbeh”, disse lui, con aria di superiorità, “lasciamo stare… Prendi queste pillole”. Ho ringraziato, ho pagato, e quando sono uscito ho appallottolato la ricetta e l’ho buttata nel primo cestino che trovai in strada. Dicendomi: “Sei un cretino!”.
Arrivò presto l’incontro con personalità che dovevo incontrare per destino. C’era sempre qualcuno che mi diceva “Hai letto Yogananda?”, “Hai letto Aurobindo?” cominciai così a leggere i mistici indiani, e fu una rivelazione.
Faccio un piccolo passo indietro. Io dicevo sempre: “Preferisco il 69, al 68”. Era la mia battuta ufficiale. Non ci sono cascato. Da un certo punto di vista sono stato come Ionesco. Quando lui dalle finestre della sua casa di Parigi vedeva i contestatori sfilare, si ergeva in tutta la sua statura (era bassissimo) e gridava: “Finirete tutti notai!”.
Una volta eravamo nell’aula magna dell’università a Roma. Dentro c’erano anche molti terroristi. Io ero un selvaggio e certe cose non le sopportavo e non le mandavo a dire. Stava cantando Mino Di Martino dei Giganti: improvvisava. Uno studente sale sul palco e gli sbatte il microfono sulla faccia. E una ragazza urla: “Bravo, hai fatto bene!” Io sono andato da lei e le ho detto a brutto muso: “Senti, cretina!…”. È successo un macello. Io me ne fottevo dei contestatori, dei terroristi. Non sopportavo quell’ignoranza e quei timbri di voce sgraziati, pieni di rancore, di livore. No, quella zona l’ho lasciata perdere, non era roba per me. Negli anni Sessanta ero partecipe di un movimento creativo, molto più interessante della sua codifica politica. Appena è partita la forma organizzata della contestazione mi sono fatto da parte e mi sono messo dalla parte dell’arte. Ho trascorso dei momenti bellissimi, allora, come ne passo oggi, del resto. E poi, quando sono nella mia veranda cosa me ne frega della politica?
Comunque, nel ’68 ebbi un piccolo successo con il brano È l’amore, grazie a Renzo Arbore che lo trasmetteva spesso in radio. La casa discografica nel ’69 pensò di puntare su di me mandandomi a Un disco per l’estate. Fu la precrisi. Mi ritrovai in gara e provai quello che si chiama “straniamento”. La sensazione che una persona prova quando entra in un posto dove si trova fuori luogo, e si chiede “cosa ci faccio qui?”. Guardavo e pensavo: “Non mi trovo a mio agio”. (…) Comunque, quello che successe nel corso del 1969 rappresentò per me l’occasione di chiudere completamente con un certo tipo di canzoni e di darmi alla musica elettronica. In realtà non sapevo cosa fosse la musica elettronica. (…) Quando facevo i concerti entravo in un mondo a parte. Poi rientravo e mi ricordavo di essere in un teatro a suonare. Erano dei viaggi: viaggi nel tempo. Amavo certe fasce sonore che, come un tappeto magico, mi facevano entrare in altre dimensioni. Per me quella era mistica musicale.
Al 1970/71 risalgono tutte le mie sperimentazioni. Del 1972 è Pollution, che entrò nei primi posti in classifica. È bene dire che per me all’epoca, essere in testa alle classifiche non voleva dire niente. Tutti noi artisti che ci muovevamo in quella zona di sperimentazione pensavamo a tutto tranne che al successo. Se ci chiamavano per un concerto e ci offrivano vitto e alloggio, noi accettavamo. Bastava questo: c’era una specie di trasmissione cosmica che ci induceva ad andare tutti in una direzione di ricerca. Era un periodo magico, che durò pochissimo tempo. Sempre nel ’72, purtroppo, mi feci prendere da una specie di delirio cacofonico. Col mio gruppo, sostenuti da luci stroboscopiche e da altre diavolerie, facevamo musica di improvvisazione. I teatri si riempivano, tanta gente restava fuori, e quelli che erano all’interno si sentivano come dentro un sabba. Suoni violentissimi e distorti, con gli oscillatori del mio sintetizzatore che sibilavano tra i 7 e i 9 mila hertz. Cominciai a capire che questa “cosa” mi aveva portato in territori che non avrei mai voluto percorrere. Un inferno! Credo che sia stata la musica più all’avanguardia del periodo. Fortunatamente non fu mai incisa su disco. Quindi… decisi di sciogliere il gruppo.
Iniziò una specie di “viaggio di pulizia”, sia della musica, sia di me come persona. Entrai in una fase intellettuale, che trovo forse la più scadente — anche se qualcuno dice che era il massimo. Chiusi quest’avventura con Mademoiselle le Gladiator del 1975. Lavorai sei mesi su un brano. Andavo per mercati a registrare voci e rumori concreti, che poi riversavo nel mitico Revox. Avevo imparato la tecnica del taglio sul nastro, in diagonale… una specie di “crossfade”. Quello da un certo punto di vista fu un disco interessante: intellettuale, ma con inserti commerciali che duravano frammenti di secondi a catena. Direi una ricerca etnografica. In quel periodo (poteva succedere solo negli anni Settanta) ogni sera in un programma radiofonico di musica pop trasmettevano il brano sopra descritto che avevo chiamato
Ethica fonetica, sette minuti di vero delirio. Erano follie, che però avevo già sperimentato nel 1970 con Fetus. Avevo scelto da manipolare, l’Aria sulla IV corda di Bach, che mi piaceva moltissimo, ma per me, il metronomo era troppo veloce. Così misi dei pesi su un giradischi, finché non raggiunsi il risultato voluto. Poi registrai le voci degli astronauti dell’Apollo 11, oggi si direbbe “campionai”, e misi insieme il tutto.
In quel periodo io consideravo la musica leggera inferiore rispetto alla musica sperimentale. (…) Sono esperienze del passato, sono contento di aver cambiato rotta, ma c’era qualcosa che scorreva come sotto terra anche allora, qualcosa che ora riconosco come spirituale. Era come un fiume carsico. Per esempio, già scrivevo brani come Il mercato degli dei. E avevo già una tendenza al trascendente, perché quella era la mia natura. L’inferno è arrivato subito dopo Pollution. Una volta sono saltato con i piedi sulla testa del violinista, perché era diventata musica satanica.
Intanto andava avanti il mio percorso. Era il 1975, ed ero da poco tornato da una tournée in Inghilterra, di circa un mese e mezzo. Al ritorno feci una vacanza con i miei amici Antonio Ballista e Nelli, sua moglie, a Santa Cristina di Val Gardena. Mi ero portato da leggere Frammenti di un insegnamento sconosciuto di P. D. Ouspenskij che raccontava gli insegnamenti di G. I. Gurdjieff. Nella solitudine della montagna, urlavo di gioia. Tutto quello che avevo grossolanamente scritto nel mio piccolo opuscolo, lo trovai nel libro espresso con una chiarezza e potenza rara.
Un giorno parlando con Roberto Calasso, gli dissi che ero molto interessato alla scuola gurdjieffiana… e se ne sapeva qualcosa. Certo, mi rispose. C’è Henri Thomasson, allievo diretto di Gurdjieff, che sta per formare un gruppo a Milano. Ebbi un incontro con Thomasson, superai l’esame, ed entrai nel gruppo. Eravamo, all’inizio, una quindicina.
Furono anni meravigliosi. Il sistema era molto serio, con un programma severo, ed era un po’ come tornare a scuola, però lavorando su se stessi. Un’esperienza durata sette anni. Sette anni d’oro.