Berlusconi, il partito
di Paolo Mieli
Può apparire strano ma proprio adesso che l’interruzione anticipata della legislatura si allontana fin quasi a scomparire, il partito italiano in cui il maggior numero di elettori (l’86%) chiede a gran voce le elezioni anticipate è Forza Italia. Stando ad un sondaggio, curato per il «Sole 24 Ore» da Roberto D’Alimonte, la quasi totalità dei simpatizzanti di Silvio Berlusconi invoca il voto in tempi ravvicinati, mentre nella Lega coloro che vorrebbero andare subito alle urne sarebbero appena il 58 per cento. Anche il Pd ha un’ampia percentuale di aspiranti alla convocazione in tempi rapidi dei comizi elettorali, ma questo si spiega con altri rilevamenti secondo i quali il partito di Nicola Zingaretti conquisterebbe in ogni caso una percentuale ben più alta di quella ottenuta il 4 marzo 2018. Forza Italia no. Stando agli studi appena citati, la formazione berlusconiana dimezzerebbe il già misero patrimonio conquistato alle ultime politiche, oggi si attesterebbe tra il 6 e il 7 per cento e se la batterebbe con il partito di Giorgia Meloni che le stesse misurazioni danno, attualmente, in vantaggio. Come si spiega? Forse perché gli elettori intuiscono che Berlusconi ha portato il partito sulle soglie dell’estinzione e, se lui decidesse all’improvviso di ritirarsi dalla politica, la catastrofe sarebbe inevitabile.
O rmai ogni italiano ha capito che il più grave limite di Berlusconi, quantomeno fuori dalla sua azienda, è stata l’incapacità di dare anche solo un contributo alla creazione di un erede politico. Li nomina e li destituisce, in tempi sempre più ravvicinati, producendo un effetto davvero comico. Talvolta, come da ultimo con Mara Carfagna, accompagnando l’esautoramento con parole sgarbate («si era montata la testa»).
Adesso è il momento di un nuovo parto della sua fantasia politica: l’«Altra Italia». Difficile capire in cosa l’«altra» differisca dalla precedente, quella della «forza». Talché viene da chiedersi se sia sottilmente ironico il Giornale che ha elencato le prime conquiste della neonata creatura berlusconiana con toni trionfali: «accetta subito l’invito» Maurizio Lupi di «Noi con l’Italia»; «pronto a sedersi a un tavolo» Stefano Parisi (con la sua «Energie per l’Italia»); un sì convinto, «plaudendo al risveglio del leone», sarebbe venuto da Gianfranco Rotondi, presidente della fondazione Dc il quale ha altresì denunciato di essere stato testé aggredito da militanti leghisti davanti al caffè Berardo di Pescara; «semaforo verde» da Stefano Caldoro, presidente del Nuovo Psi, da Saverio Romano con il Cantiere Popolare e da Lella Golfo «da sempre impegnata in una battaglia per il riconoscimento dei diritti delle donne nel mondo del lavoro»; sarebbe «pronto a dire presente» anche Daniele Priori di Gaylib (che «riunisce gli omosessuali di centrodestra») e, con qualche maggiore cautela, si sarebbero detti «interessati al progetto» Carlo Costalli, presidente del Movimento Cristiano dei Lavoratori (Mcl), Francesco Pasquali, «ufficio di segreteria nazionale del Pli», e Clemente Mastella. Costalli ha però così messo le mani avanti: stavolta Berlusconi «deve formare un centro non “ballerino” come quello alla Casini»; «non bastano le adesioni di parlamentari che rappresentano piccoli partiti e si preoccupano della ricandidatura». Disponibile «a rispondere alla chiamata» sarebbe Mino Giachino, «il regista delle piazze Sì Tav». Un «primo segnale» sarebbe giunto anche dalla Südtiroler Volkspartei che però astutamente avrebbe precisato di non ambire ad essere «parte integrante» del progetto. Mentre accetterebbe di essere coinvolto all’istante Fulvio Martusciello, europarlamentare azzurro appena rieletto.
Questa l’armata dell’«Altra Italia» al momento del debutto. Nel frattempo — andatosene il filoleghista Giovanni Toti, incoraggiato da Paolo Romani — i restanti inaspriscono i toni contro la Lega. Personaggi riconducibili a Berlusconi partecipano ai talk televisivi (spesso sulle reti Mediaset) per puntare l’indice contro Salvini perorando la causa dei migranti con invettive incandescenti. Risultato? Un momento di grande disordine per quello che a lungo è stato il partito più influente della politica italiana.
Disordine che viene da lontano. Berlusconi è entrato nell’attuale decennio come presidente del Consiglio e leader del partito più votato dagli italiani. Nell’autunno del 2011, disarcionato dal governo in quello che successivamente avrebbe più volte definito un colpo di Stato, prese la nobile ma sorprendente iniziativa di votare a favore dell’esecutivo presieduto da Mario Monti. Nel 2013 ebbe nuovamente alle urne buon risultato e, dopo le traversie che portarono alla rielezione a capo dello Stato di Giorgio Napolitano (anche con i suoi voti, diversamente dalla prima volta), accettò di entrare a far parte di un governo guidato da Enrico Letta. Nell’estate di quell’anno Berlusconi fu condannato definitivamente a una pena detentiva e in autunno inspiegabilmente presentò il conto a Letta negandogli ulteriore appoggio. Nel 2014, a sorpresa, entra in campo Matteo Renzi e Berlusconi torna in pista con il Patto del Nazareno in virtù del quale, per progettare riforme istituzionali, il segretario Pd avrebbe avuto mano libera sul governo e lui (pur in espiazione di condanna) sull’opposizione. Ma ad inizio 2015 nuova sorpresa: a seguito dell’elezione alla Presidenza della Repubblica di Sergio Mattarella, il leader di Forza Italia (ancora fuori dal Parlamento e ai servizi sociali in un centro anziani di Cesano Boscone) litiga con il Pd. È in questo lasso di tempo — tra la crisi con Letta e quella successiva con Renzi — che cambia la storia di Forza Italia. Curiosamente passando per due rotture con il Pd con il quale aveva stipulato altrettanti patti di unità nazionale garantiti dal Quirinale dove era al comando un ex comunista. Dopodiché Berlusconi non ha ben calcolato cosa comportasse per lui e la sua formazione la partecipazione — dalla parte del No — al referendum costituzionale del 4 dicembre 2016, in cui i suoi si presentarono in tv con una postura simile a quella della sinistra più radicale. Quel referendum, fu il grande battesimo per il Movimento Cinque Stelle ma ne beneficiarono anche Lega e Fratelli d’Italia. Ebbe invece effetti tombali — ed era scontato — per il Pd di Renzi. Ma anche — ciò che era meno scontato — per l’altra sinistra nonché per Silvio Berlusconi. Successivamente il Pd — dopo aver cambiato il segretario in seguito a un’ulteriore sconfitta alle elezioni politiche del 2018 — ha iniziato a riprendersi. Estrema sinistra e Berlusconi, no.
L’ultima sfida Berlusconi l’ha lanciata a Salvini con cui si era presentato in coalizione nelle elezioni politiche del 2018: se avesse avuto più voti la sua formazione politica, gli propose, sarebbe stato lui ad essere il leader del centrodestra; se fosse prevalsa la Lega, sarebbe stato il nuovo Matteo. Vinse Salvini, ma il centrodestra non aveva un numero di parlamentari sufficiente per governare e il leader della Lega se ne andò con Luigi Di Maio. Da quel momento Berlusconi, che pure aveva pubblicamente approvato quel passo, chiede quasi ogni giorno a Salvini di tornare indietro, vagheggiando un governo che si avvarrebbe del sostegno di transfughi parlamentari. Nel frattempo con il Pd post-renziano è riuscito ad aprire un momentaneo dialogo solo in Sicilia e con Salvini, nonostante i successi ottenuti assieme in numerosissime elezioni locali, i rapporti sono di crescente, reciproca insofferenza. Situazione difficile. Se c’è una fase storica in cui Berlusconi dovrebbe far ricorso al tocco magico che tutti gli hanno sempre riconosciuto, nessuna occasione potrebbe essere più adatta di quella attuale. Solo con la magia può uscire dall’angolo in cui lui stesso si è cacciato.