Filelfo e il mondo salvato dagli animali

I capelli, le foglie, le piume degli uccelli sono un’unica cosa… la natura è un unico sistema fatto di infinite e meticolose connessioni, e il mondo ha un’unica anima fatta di tutto ciò di cui noi, come dice il nostro nome, animali, siamo specchio”.

È questa l’anima mundi sulla quale in molti (non tutti) abbiamo riflettuto sotto pandemia, e dentro clausura. È il nostro essere intrinseci alla natura – siamo una specie tra altre specie, lo siamo oggettivamente – e poi il nostro averlo dimenticato, rischiando di perderci e di dannarci. In mezzo alla retorica (tanta) e allo spavento (tanto) questa traccia è quanto di solido, di potente e di virtuoso l’anno del Covid può lasciarci in eredità: a patto di saperlo capire e soprattutto di saperlo dire. Lo ha certamente capito, e soprattutto ha saputo dirlo, tale Filelfo, pseudonimo classicheggiante di scrittore o intellettuale italiano ignoto, autore dell’Assemblea degli animali, favola morale uscita solo per la prima parte a puntate su Robinson e ora pubblicata integralmente da Einaudi Stile Libero, con illustrazioni (magnifiche) di Riccardo Mannelli, che quando disegna gli uomini è spietato, quando disegna le bestie è devoto.

Ho il sospetto che questo libro sia un capolavoro, lo dico da lettore ammirato, e con tutta l’ingenuità del caso. Per la sua scrittura al tempo stesso sontuosa e netta, ovviamente (che cosa c’è, in un libro, di più importante della scrittura?), ma anche per il suo presupposto, che è preciso, implacabile, sonante: il peccato originale dell’uomo non è la conoscenza, è la dimenticanza. È avere dimenticato di essere natura, non altro, e di dipendere da quelle “meticolose connessioni”, da quella “unica anima”, che è il motore della vita e della morte.

Filelfo racconta la pandemia dal punto di vista degli animali. Lo fa con l’arbitrarietà del narratore di fiabe (gli animali parlano, nel suo libro, come quelli di Esopo e La Fontaine) ma con la sapienza e la pietà dell’umanista. Agli animali attribuisce la saggezza perduta – ovvero, la coscienza che la natura è sovrana. Il Deus sive natura di Spinoza. All’aquila, al leone, alla balena, ai sovrani selvatici che sono i leader dell’assemblea degli animali, il compito di dare un avvertimento agli uomini sovvertitori dell’ordine naturale. Il virus, come tutti i suoi predecessori pestilenziali, sarà il regolatore della nostra specie. Poi arrivano la morte e il dolore, che accomunano bestie e umani. E al cane e al gatto, in “religiosa” simbiosi con la bestia uomo, Filelfo attribuisce il compito di soccorrerci, fino a che una nuova fusione, e immaginifiche metamorfosi, daranno vita a una nuova assemblea dei viventi. Per un finale che non va svelato, ma si fonda, comunque, sulla comunione delle specie viventi.

Chi sia Filelfo non lo sapremo mai; ma possiamo già cancellare, tra gli indiziati, chi non ha mai vissuto con cani e gatti. La canitudine e la gattitudine, in questo libro, sono così simbioticamente scritte che solo una lunga consuetudine può spiegarlo.

L’interminabile, ricchissima appendice bibliografica del libro susciterebbe un certo fastidio, se fosse solo sfoggio di erudizione. È invece parte integrante della narrazione: spiega che “già sapevamo”, volendo, quello che bisognava sapere. Che a questo serve la cultura (altra grande tradita dalla specie umana, insieme alla natura…). Che tutto era scritto, che i miti, i poemi, la tradizione sacra e quella profana grondano di una sola interminabile preghiera, quella che l’uomo rivolge al cielo stellato, al mare in tempesta, alla magnificenza della natura, alla potenza simbolica delle bestie senza le quali noi saremmo analfabeti, ovvero sprovvisti dei segni che servono a leggere l’universo.

Ecco, gli animali sono, di questo libro, l’alfabeto. Sono le singole lettere, specie per specie, che permette (permetterebbe) all’uomo di parlare nuovamente il linguaggio della natura. Il più savio, enorme e misterioso, la balena, offre all’umanità il passaggio di salvezza: la specie umana non dovrà perire, ma imparare da una lunga pena. “Quelli che servono idoli falsi e abbandonano l’amore della natura siano gettati nell’abisso, nel cuore del mare, le correnti li circondino, le onde passino sopra di loro, l’alga si avvinghi al loro capo. La terra spranghi i suoi cancelli per sempre dietro a loro, dal profondo degli inferi gridino. Ma se con voce struggente canteranno, e impareranno dalla sventura, e adempiranno il voto fatto alla natura, che si salvino e siano rigettati sulla terra”. È il discorso della balena, è una delle (tante) pagine potenti del racconto, forse troppe – finalmente mi concedo il lusso di una critica – rispetto al bisogno di tregua che ogni tanto il lettore avverte. Pochi alleggerimenti comici (il politicantismo del re dei topi, l’entusiasmo incontrollato del cane) non impediscono agli animali il trionfo “morale” che l’autore assegna al loro stesso esistere.

“Ora l’epidemia, la morte, lo svuotarsi del mondo che li circondava (gli uomini, ndr) avevano fatto risorgere la memoria dell’arca che era in loro e li avevano ricongiunti alla grande anima in cui ogni animale è immerso… Quelli che dalla sventura avevano imparato, come voleva la balena, a cantare con voce struggente la gioia del lignaggio animale ritrovato”. Quanti di noi hanno davvero imparato? Secondo Filelfo, ne basterebbero pochi per salvare il mondo e insieme a esso l’uomo: sono la stessa cosa.
 

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