L’immaginazione è un fatto di libertà. Proprio per questo è uno spazio di non-violenza. Ma la crudeltà, in senso artaudiano, è tutt’altra cosa dalla violenza: volontà di rifare il mondo assecondandone il ritmo più intimo, vitale. La violenza è banalità del quotidiano, quando il quotidiano è ridotto a banalità. Banalità dei suoi riti: le mezze parole, la menzogna senza relazione, la calunnia asservita, la denuncia servile. Anche quella di una donna, una madre, che denuncia il marito e seppellisce sotto la cenere questa ambigua verità. Ma i fatti sono tenaci se l’immaginazione li libera dalle catene del quotidiano: riemergono qui e altrove, plasmano e riplasmano la realtà.
Arrestato il giorno stesso in cui moriva la Repubblica, condannato a morte – pena poi «commutata» in trent’anni di prigione –, costretto a vagare da prigione a prigione, «il 4 novembre del 1941 colpito da turbe mentali, mio padre fu trasferito del carcere centrale di Burgos al manicomio provinciale della stessa città. Cinquantaquattro giorni dopo fuggì e scomparve per sempre. Il giorno della sua scomparsa, a Burgos, c’era un metro di neve e gli archivi indicano che egli non aveva con sé la carta di identità e indossava soltanto il pigiama. Mio padre che era un «rosso», era nato a Cordoba nel 1903. La sua vita fino alla scomparsa fu una delle più dolorose che io ricordi. Mi piace pensare di avere le sue stesse idee artistiche e politiche». Come c’era finito, in quel carcere? Che cosa lascia, chi ci lascia? Quale vuoto, quale spazio, quale abisso si apre dentro di noi? Come ammoniva la sfinge di Pasolini – e Fachinelli – nel rivolgere a Edipo la sua maledizione («l’abisso in cui tu mi getti è dentro di te»), ogni enigma è insolubile.
Viva la muerte, il primo film di Fernando Arrabal e tutto qui. È la descrizione di un’infinita caduta (la scomparsa del padre del protagonista, i sospetti sulla madre) e un’indefinita ascesa, un adorcismo fantastico nato in quel lembo di spazio-tempo che nel giro di pochi anni rese possibili sperimentazioni di visione radicali: Topor, Jodorowsky. Fuggire da Burgos – al tempo capitale del franchismo – è l’ultimo atto di libertà possibile, per il padre inseguito e cercato dal protagonista di Viva la muerte. Tutto qui.
Non è poco. Arrabal e nato a Melilla, 1932. Enclave spagnola in Africa o ferita d’Africa nella boria di Spagna? Territorio cardine del bieco immaginario della reconquista franchista, ma mai davvero riconquistato. Viva la muerte: così, senza punti esclamativi, è già una deflagrazione. Il titolo depotenzia il grido dei falangisti, lo dissolve, ne mostra il lato in ombra, azzera il volotarismo abietto. È il paradosso crudele, vitale, di questo zona franca, di libertà: il cinema. Moravia osservava che sono due le linee narrative di questo debutto cinematografico di Fernando Arrabal. Realizzato nel 1971, tratto dal romanzo Baal Babylone (1959: si può leggere nella traduzione italiana di Roberto Cadonici, edito per la Libreria dell’Orso di Pistoia, 2005), girato in Tunisia (a Hergla, Bizerte e Menzel Bourguiba), c’è il quotidiano del bambino protagonista e di sua madre, delatrice del padre rimasto fedele alla Repubblica e scomparso nottetempo, e c’è una linea onirica e al tempo stesso espressionista esacerbata e potente. C’è, in altre parole, una biografia fattuale e c’è una biografia contro-fattuale. La vita si inscrive nella vita. E così si riscrive all’infinito. Gioca sul confine tra il bene e il male, e li abbandona entrambi, per restare senza protezioni o alibi su quel confine. Male: il giovane protagonista di Viva la muerte immagina, sente e presente che a denunciare il padre comunista sia stata la madre. Dicono che il padre è morto, ma Fando, dodici anni, sente, presente, lo immagina ancora vivo.
Bene: c’è un forte senso morale, nella crudeltà di Arrabal. C’è la vita, tutta, in quel presentire il padre «ancora vivo». C’è tutta la morte, in questa visione intima, morale e al contempo spettacolare del franchismo. Ricordiamo che Arrabal fu considerato tra i cinque esuli più pericolosi dal regime e solo anni dopo la caduta di Franco gli sarà concesso il ritorno a casa. Ammesso ci sia mai più, una casa.
Le case in rovina sono popolate di spettri. Ma alcuni spettri sanno ridar vita alle case.
Così è per Viva la muerte, casa dei nostri orrori quotidiani e delle «modeste verità di fatto» (Arendt) fatte di mezze verità, mezze parole, mezze esistenze contro cui si sono schiantati idealismi e -ismi di ogni sorta, film oggi finemente e finalmente restaurato dalla Cinémathèque de Toulouse, in collaborazione con Fernando Arrabal, e con il sostegno del Ministère des Affaires Culturelles tunisien e dell’associazione Ciné-Sud Patrimoine.
Lacerato dall’amore totale per la madre, ferito dal suo possibile, altrettanto presentito tradimento, questo film è il film di un’assenza. Se l’inconscio su cui si gioca questo gioco pericoloso è pieno di mostri, la realtà non ne è esente. L’avere stabilito – scriveva Moravia – «un rapporto dialettico tra i mostri dell’inconscio e la vita morale mi pare uno dei meriti principali di questo film eccezionale». Vita morale. oltre lo sdegno, la denuncia, il compianto, non può essere che una rivolta, nel senso più vero, più forte. È una bandiera rossa conficcata nel cuore nero della sfinge. E di Edipo. Se c’è un tema che attraversa Viva la muerte – anzi: lo anticipa, nei cinque minuti di titoli di testa disegnati di Topor, accompagnati da una canzoncina danese, paratesti di visione – è la volontà di sottrarsi a ogni logica espiatoria. Non essere il capro di nessun dio Baal. Liberarsi, liberare. La fine di ogni storia, come la fine della Storia, per Arrabal inizia sempre dal principio. Dai titoli di testa di Viva la muerte, per esempio. Da un’infanzia che non è semplicemente «prima», cronologicamente, ma «dopo»: libertà, immaginazione, fine di ogni logica espiatoria.
Così Arrabal: «Senza confrontare l’incomparabile. Davanti alla decadenza delle cose (e in molti casi, senza che abbia un nesso logico) penso a un capro espiatorio: mio padre. Il giorno in cui l’incivile guerra ebbe inizio, fu rinchiuso, in solitudine, dai suoi solerti compagni, nello stanzino delle bandiere della caserma di Melilla; gli lasciarono il tempo per pensarci, visto che rischiava di essere condannato a morte per alto tradimento se non aderiva alla sollevazione. Trascorsa appena un’ora, il tenente Fernando Arrabal chiamò i suoi compagni per comunicare che non aveva più bisogno di pensarci. Grazie a ciò, oggi devo essere io testimone, esempio o simbolo, come lui, di ciò che arriva alla massima trascendenza? Io che sono semplicemente un esule. Senza le mie idolatrate cifre, ciò che mi circonda mi conduce alla confusione (ahimè!) e allo sconcerto e all’assenza di ordine! Non voglio essere un capro espiatorio come lo fu mio padre, voglio solo spirare vivo, quando lo Pan lo vorrà».