F. F. Coppola “The End” è l’Apocalisse perfetta

Il regista spiega perché la scelse per la prima scena del suo capolavoro
di Antonio Monda
Pochi film iniziano in maniera più folgorante di Apocalypse Now: un elicottero militare attraversa lo schermo da sinistra a destra sullo sfondo della giungla vietnamita, con il rumore delle pale in un silenzio innaturale e assoluto. Sono passati pochi secondi eppure lo spettatore avverte già qualcosa di minaccioso, e infatti in quel momento un fumogeno giallo invade lo schermo, e poi, d’improvviso la giungla esplode in un gigantesco incendio: il napalm, che come dirà in seguito un personaggio “al mattino sa di vittoria” sta distruggendo la vegetazione e chissà quante vite umane. Nello stesso momento, in una doppia dissolvenza, compare il primo piano di Martin Sheen, a testa in giù. È il giovane capitano Willard incaricato di uccidere Marlon Brando, ovvero Kurtz, il colonnello impazzito, o forse troppo saggio, che ha fondato un proprio regno all’interno della giungla.
L’angoscia, l’orrore e la follia sono già tutte lì, ma ciò che tiene insieme e rende compiuta la sequenza è The End cantata da Jim Morrison, con quel suo tono struggente e le parole che sigillano la fine di tutto e attendono l’apocalisse: Questa è la fine, amico bello / questa è la fine, mio unico amico / la fine dei nostri piani elaborati / la fine di tutto ciò che esiste / la fine / nessuna sicurezza né sorpresa / la fine / non vedrò mai più nei tuoi occhi di nuovo.
«In un primo momento avevo pensato di iniziare il film con un’altra canzone dei Doors, Light my fire », racconta Coppola, ancora emozionato mentre ricorda la lavorazione, «ma poi mi è sembrato interessante iniziare il film con la parola fine».
Conosceva Jim Morrison?
«Sì, lo conoscevo bene, studiava alla Ucla ed era una persona estremamente gentile, molto seria e con grandi interessi intellettuali: nonostante fosse uno studente di cinema, leggeva sempre Nietzsche ed era indeciso se diventare un poeta o un filosofo. Era un uomo caloroso e studioso oggi diremmo secchione, molto diverso dall’immagine maledetta che ha prevalso in seguito. Esiste un film studentesco in cui appare come attore insieme a mia sorella Talia Shire, che all’epoca aveva sedici anni. Qualche anno dopo, grazie al lavoro di sceneggiatore, ero diventato tra i pochi cineasti della mia generazione a potermi permettere una casa e a metter su una famiglia: sopravvalutando il mio potere molti colleghi mi vedevano come un punto di riferimento, e io ho sempre aperto la casa a tutti. Un giorno mi vennero a trovare Ray Manzarek e Jim, e mi dissero che avevano in mente di formare un gruppo chiamato The Doors.
Mi diedero un demo e mi chiesero consigli: io rimasi molto colpito dall’originalità dei testi, dalla musicalità e dalla voce di Jim. Li raccomandai ad alcuni produttori che però non li apprezzarono: Hollywood non si distingue per coraggio innovativo».
Cosa hanno rappresentato i Doors per la sua generazione?
«Il simbolo di un profondo senso di sconcerto rispetto ai cambiamenti epocali, in particolare al trauma della guerra del Vietnam. Nessuno capiva la necessità di quella guerra, ma davamo giornalmente l’ultimo saluto a bare avvolte nelle bandiere, mentre in Vietnam continuavano le stragi. Quando ho iniziato a lavorare ad Apocalypse Now ho capito che era il gruppo che avrebbe simboleggiato meglio quel momento, e scoprii in quella occasione che il padre di Jim aveva avuto esperienze militari in marina.
Cominciai a fare ricerche e il mio montatore, Walter Murch, è riuscito a trovare l’ultima ripresa mai fatta di Morrison che canta The End ».
Lei ha usato sempre in maniera mirabile la musica: nello stesso film c’è ad esempio una scena celeberrima di un bombardamento al suono della Cavalcata delle Valchirie di Wagner. Voglio chiederle però se è tra coloro che ritiene che il cinema più grande sia sempre muto?
«Non necessariamente. È ovvio che il cinema puro è fatto solo da immagini in movimento, ma si possono realizzare capolavori anche con i dialoghi e la musica.
Sono d’accordo con Murnau, il quale teorizzava che il cinema sonoro è inevitabile, ma è arrivato troppo presto: ha fatto arrivare prematuramente la fine della prima fase del cinema, in cui grandissimi registi si sono espressi soltanto con le immagini e le espressioni mute degli attori. E se posso aggiungere un aneddoto uno dei responsabili è in famiglia».
Cosa intende?
«L’ingegnere che ha realizzato la Vitaphone, la tecnologia che ha permesso il cinema sonoro, è mio nonno Agostino Coppola».
Ritiene che il cinema sia più vicino alla letteratura o alla musica?
«La grandezza del cinema consiste nel fatto che abbraccia tutte le arti, ma forse è proprio la musica quella a cui il linguaggio delle immagini si avvicina maggiormente».
Lei è figlio di un musicista: chi è secondo lei il compositore più cinematografico?
«Sono tantissimi, e quasi tutti dell’Ottocento: mi viene in mente Strauss, ma sono infiniti i musicisti utilizzati mirabilmente, a cominciare da Verdi. Ricordo che quando Dimitri Tiomkin ricevette il suo Oscar ringraziò il lavoro dei grandi musicisti prima di lui che non scrivevano per il cinema».
Ritiene che la musica scritta per lo schermo abbia un valore in sé o sia sempre di servizio?
«Io credo che alcune colonne sonore rappresentino grande musica. No, io non sono tra coloro che la considera solo di servizio: senza voler citare persone vicine come mio padre Carmine, o Nino Rota, che ha musicato il Padrino, penso per esempio a John Williams. Si tratta di grandi musicisti che possono avvalersi di una straordinaria eredità».
Che valore attribuisce ai video musicali?
«Il cinema che correda i video è per definizione di servizio, ma credo non si debba essere snob: la storia dell’arte ci ha insegnato che spesso lavorando su committenza si ottengono risultati straordinari».
C’è una peculiarità nella musica dei Doors al cinema?
«Si tratta di musica che non è stata immaginata per lo schermo, ma si fonde mirabilmente alle immagini perché porta con sé uno spasmo di rabbia e dolore: è musica viva, sempre sorprendente».
Cosa le piace di The End?
«Che parla di una fine ma non finisce, grazie a quella musica che ritorna sempre su se stessa e la voce di Jim».
https://www.repubblica.it › robinson