Ex-Ilva, necessario un nuovo blocco sociale

In dialogo con il segretario della Fiom–Cgil di Taranto, Giuseppe Romano, la proposta della costruzione di una prospettiva egemonica che includa i diritti di tutti, a cominciare da quello alla salute

“Ex-Ilva, urge l’avvio della transizione ecologica”. Con questo titolo, su questo sito, viene riportato il pensiero di Giuseppe Romano, segretario Fiom-Cgil di Taranto. Vi si legge: “L’attuale stabilimento col ciclo integrale e con questo tipo di impianti – ancor più in assenza di massicce dosi di manutenzioni straordinarie, ma anche ordinarie – non è più sostenibile”. Giuseppe Romano è un sindacalista attento e ben documentato. Sull’Ilva di Taranto ha già dichiarato al giornalista Guido Ruotolo: “La questione vera, oltre alla compatibilità ambientale e sanitaria, è come si tiene l’occupazione attuale che prevede per il ciclo integrale l’equazione un milione di acciaio prodotto e mille dipendenti. Già col forno elettrico il rapporto scende a un milione di acciaio e trecentocinquanta-quattrocento lavoratori”.

Seguiamo allora il filo del discorso immaginando che l’Europa finanzi interamente i forni elettrici, sostituendo il carbone e utilizzando energie rinnovabili non inquinanti per produrre l’idrogeno. Immaginiamo che questo sistema di produzione dell’acciaio “pulito” passi rapidamente dalla fase del prototipo su piccola scala a quella della produzione su larga scala. E immaginiamo che l’Europa paghi persino l’energia necessaria a farlo decollare. Insomma, una partenza gratis per una svolta totale che affranchi Taranto dai veleni siderurgici attuali.

Il sindacato sarebbe felice per questa transizione ecologica? Il problema è che con questa “transizione” si scende – lo dice Romano – a trecentocinquanta-quattrocento addetti per milione di tonnellate/anno di acciaio.

Il nuovo ciclo produttivo decarbonizzato, altamente automatizzato, è di tipo labour saving e compensa i maggiori costi iniziali di investimento con una netta riduzione della forza-lavoro e, in prospettiva, con una minore tassazione, in vista di una carbon tax sempre più pesante per i cicli produttivi basati sul carbone.

Immaginiamo una produzione a sei milioni di tonnellate/anno di acciaio. Facendo la nuda contabilità degli apporti occupazionali di un simile stabilimento siderurgico decarbonizzato, possiamo dire che un’Ilva totalmente “green” passerebbe da oltre diecimila posti di lavoro a un numero di occupati pari a circa un quarto: duemilacinquecento lavoratori, e anche meno. Il taglio sarebbe almeno del 75% rispetto al tempo dei Riva. E se la produzione aumentasse a sette milioni di tonnellate/anno? Non si arriverebbe a tremila lavoratori. E anche nell’ipotesi di arrivare a otto milioni di tonnellate/anno – irrealistica stando all’attuale effettiva richiesta di acciaio –, ecco che l’occupazione sarebbe comunque di un terzo rispetto ai tempi dei Riva.

Di fronte a questo scenario, è lecito chiedersi se non sia diventato centrale, per il futuro dei lavoratori di quello che fu il più grande stabilimento siderurgico d’Europa, una riconversione che vada oltre la fabbrica e abbracci il territorio nel suo complesso. Questione mai affrontata con la necessaria convinzione da parte sindacale, in quanto si è puntato sulla ripresa occupazionale, cosa che si sta rivelando irrealistica. Dai numeri che emergono (la decarbonizzazione non darà posti di lavoro ma li toglierà), la riconversione economica è la vera questione che riguarda il futuro dei lavoratori, i quali, in grande maggioranza, non andranno mai in pensione come lavoratori del comparto siderurgico. E i quali, da tempo, portano a casa un reddito pagato di fatto dai contribuenti italiani, viste le enormi perdite economiche dello stabilimento.

L’urgenza di una scelta di riconversione complessiva poggia sui dati drammatici emersi dalla recente ricerca pubblicata su “Environmental Research” e qui che certifica un eccesso di mortalità, nei quartieri vicini alla fabbrica, di cento persone l’anno. È il dato drammatico che è stato esposto dai ricercatori, autori dello studio, alla delegazione dell’Onu che si occupa di diritti umani e che da Ginevra si è recata a Taranto il 2 ottobre scorso. E se cento tarantini che muoiono ogni anno in più non sono capaci di smuovere la compassione del mondo, si sappia almeno che lo stabilimento è un “mostro climatico” che si classifica al primo posto in Italia per emissioni di CO2, sommando ciò che esce dai camini a ciò che fuoriesce dalle centrali termoelettriche dello stabilimento che si alimentano dai gas siderurgici. A che serve gridare contro i cambiamenti climatici – com’è accaduto nella Pre-Cop26 di Milano conclusasi il 2 ottobre –, se poi si lasciano salire al cielo le emissioni dei mostri climatici, che associano al danno sanitario locale anche il danno ecologico globale?

Le tecnologie che possono salvare le persone e contrastare i cambiamenti climatici ci sono. Lo dice Greta. Lo dicono tutti gli scienziati. Ma quelle tecnologie non salvano tutti i posti di lavoro, anzi li falciano inesorabilmente. E proprio per questo un sindacato pro-attivo, capace cioè di anticipare i tempi e di fornire risposte prima che si verifichino gli effetti inaccettabili, dovrebbe essere pienamente consapevole che un’epoca è finita e che difendere il passato non servirà a nulla. I tempi che ci aspettano richiedono qualcosa di completamente diverso dal passato. Richiedono una difesa delle persone e dei loro diritti, non quella di obsoleti processi produttivi che hanno ridotto la speranza di vita dei lavoratori anziché aumentarla. I tempi nuovi richiedono un sindacato che, facendosi carico del destino dei lavoratori, si faccia carico anche del destino degli “altri”, di quelli che sono fuori del muro di cinta della fabbrica. Un tempo gli studenti andavano ai cancelli delle fabbriche per unirsi agli operai. Oggi non più: anzi, a Taranto vanno a quei cancelli apponendo, com’è successo, dei lucchetti e scrivendoci sopra “chiusura”. La costruzione di un blocco sociale capace di “egemonia” è l’unica strada per contrastare ingiustizie e per costruire un’idea equa di futuro, in cui nessuno sia posto in un angolo, dimenticato, o in un reparto a fare chemioterapia.

L’egemonia è un sistema di alleanze costruito con una cultura nuova, sugli intellettuali. Oggi più che mai sulla scienza e sulla ricerca. Questo ci insegnò Gramsci con i suoi Quaderni: costruire alleanze fra gruppi sociali non omogenei fra loro, ma potenzialmente convergenti per un bisogno radicale di giustizia sociale. Questa idea di egemonia, basata sul dialogo fra diverse forze sociali, è l’unica che può allargare le alleanze di una classe operaia oggi isolata, riportandola – come un tempo – al centro di un’idea di futuro basata sulla giustizia sociale e sulla condivisione di una prospettiva che includa i bisogni e i diritti di tutti.

 

 

https://www.terzogiornale.it/