Vuole la leggenda che nel 1972 Chou En-Lai, interrogato sulla Rivoluzione francese, abbia risposto che era troppo presto per esprimere un giudizio. A soli cinque anni dai discorsi di Astana e Jakarta in cui Xi Jinping ne parlò per la prima volta, è legittimo affermare lo stesso a proposito della nuova Via della Seta. Ma così come nel 1794 era già chiaro che nel 1789 era cambiata la storia, non ci sono dubbi che il mega progetto per connettere Asia ed Europa ha rapidamente acquisito straordinaria visibilità e credibilità: non è prematuro affermare che la Belt & Road Initiative (Bri) sta già imprimendo il suo sigillo alle relazioni politiche ed economiche globali.A giustificare questa affermazione non concorrono per il momento grandi realizzazioni. Non c’è ancora un porto o una ferrovia targati Bri, e un progetto emblematico come l’autostrada dallo Xinjiang al porto pakistano di Gwadar, sul Mar Arabico, non è ancora completato (e comunque la sua concezione è precedente all’ascesa di Xi). Per quanto riguarda le rotte del commercio estero di Pechino, e soprattutto l’energia, perdura la preminenza dello Stretto di Malacca e del Mare della Cina del Sud, entrambe sotto il parziale controllo della Marina americana. E le tratte ferroviarie sino-europee, che pure sono cresciute rapidamente (ad agosto è transitato il vagone numero 10mila), rappresentano una parte infima del traffico merci.
I veri risultati ottenuti dalla Bri si situano sul piano cognitivo e simbolico, dimensioni fondamentali per strutturare in profondità il sistema internazionale. L’aiuto (certo non disinteressato) che la Cina dà ad altri Paesi emergenti e in via di sviluppo garantisce la legittimità necessaria per elaborare una nuova narrativa dello sviluppo, che assegna un ruolo cruciale alle infrastrutture e al settore pubblico, alternativo rispetto a quello che il Washington consensus negli anni 90 assegnava al mercato, all’equilibrio macroeconomico, alle privatizzazioni. E intorno alla Bri stanno sorgendo istituzioni – tra le quali la Asian infrastructure investment bank (Aiib) e gli Istituti Confucio – per promuovere principi e standard nuovi rispetto alla good governance veicolata dalle istituzioni di Bretton Woods.
In teoria questa strategia non è destinata a creare inesorabili frizioni con l’Occidente, sebbene costituisca una cesura rispetto al precetto di Deng Xiaoping di mantenere un profilo basso in politica internazionale. Pechino cerca cooperazione, appare quasi ansiosa di firmare memoranda of understanding che testimonino l’altrui interesse per la Bri. Tutto ciò sembrerebbe giustificare l’entusiasmo con cui alcuni Paesi europei presentano ai cinesi lunghe liste di progetti da finanziare. Ma dietro la patina del win-win, retorica prediletta da Xi, sta la dura logica della realpolitik ed è quindi importante riconoscere anche i rischi.
La Cina nutre dubbi sul sistema delle regole globali, per esempio sulla facoltà che spesso assegna ai Paesi più ricchi di interferire sulle politiche in quelli più poveri. Alla legittima aspirazione di costruire un regime nuovo deve però accompagnarsi la volontà di assumere maggiori responsabilità. A parole Pechino riconosce la necessità di consultare la popolazione nei progetti infrastrutturali, garantire la trasparenza degli appalti, lottare contro la corruzione, rispettare i diritti umani, tutelare l’ambiente. Nei fatti, come dimostrano i problemi che incontra (in Pakistan, Sri Lanka, Malaysia, Zambia), Pechino guarda innanzitutto ai propri interessi, e pensa di lasciare ad altri il conto per gli eventuali piatti rotti – per esempio che l’Occidente soccorra Paesi il cui debito è tornato a essere insostenibile pochi anni dopo aver beneficiato del condono.
C’è poi una grave asimmetria nell’accesso ai rispettivi mercati. Quello europeo è quasi completamente aperto, quello cinese è spesso inaccessibile e comunque è irto di ostacoli. Invece che migliorare, la situazione per le imprese europee è peggiorata negli ultimi tempi, segnati dal rafforzamento del potere del Partito e dall’ambizione di Pechino di dominare le industrie del futuro, anche attraverso trasferimenti tecnologici forzosi dalle multinazionali alle imprese cinesi. Il risultato è che i national champion cinesi sono sempre più attivi nello spazio Bri, a caccia di tecnologie innovative in Europa, ma anche di sbocchi nuovi per l’eccesso di capacità produttiva accumulata grazie ai crediti convenienti. E questo nei mercati terzi si manifesta in concorrenza sleale rispetto alle imprese occidentali.
È fondamentale per l’Europa reagire, senza farsi schiacciare tra ambizioni di Xi e containment di Trump. Per questo è indispensabile disporre di una visione condivisa, tutt’altro che scontata dato che molti Paesi della periferia fanno gli occhi dolci a Pechino. Anche l’Italia, una volta passata la sbornia generata dai rituali brindisi alla gloria di Marco Polo e Matteo Ricci, dovrà capire in cosa consistono gli interessi nazionali e contribuire alla politica europea verso la Bri, magari cominciando dal settore energetico.
Il Sole 24 Ore – Andrea Goldstein – 10/11/2018 pg. 18. https://www.ilsole24ore.com/