Estate antimoderna

Il rito di passaggio, la sfida al mondo degli adulti, al progresso. Il racconto più bello di Stephen King: “Il corpo”. Rob Reiner ne ricavò un film meraviglioso, “Stand by Me”

Different Seasons è uno dei libri più belli di Stephen King. È un libro d’occasione, non pensato, costituito da quattro racconti installati in una cornice piuttosto vaga: le quattro stagioni della vita (oppure, perché no, le quattro virtù cardinali scardinate). Nella nota finale, Stephen King narra le genesi di questi racconti “abbastanza lunghi”: “sono stati scritti subito dopo aver terminato un romanzo… è come se finissi sempre il grosso del lavoro lasciando nel serbatoio benzina sufficiente a sputar fuori una novella di dimensioni ragguardevoli”. Il libro è stato pubblicato da Viking Press nel 1982, quasi subito edito in Italia da Sperling & Kupfer con il titolo Stagioni diverse. L’epigrafe ha un suono mistico, “è la storia, non colui che la racconta”: tutto il libro, in effetti, è una variazione sull’arte del racconto, sulla costruzione del mito. Noi esistiamo finché siamo parte di un racconto, ci abbandoniamo al fuoco della storia, pare dirci King: la storia ha più potere della Storia, la sua gemella dal viso ustionato, dagli occhi svuotati, muti.

Tre di quei quattro racconti hanno evocato altrettanti film: Le ali della libertà – con Tim Robbins e Morgan Freeman – è il più brutto, tratto da Rita Hayworth e la redenzione di Shawshank. Il racconto più inquietante s’intitola Apt Pupil, o meglio, “L’estate della corruzione”: un ragazzo, Todd Bowden, scopre, nel 1974, a Los Angeles, che l’anziano Arthur Denker è in verità un ex criminale nazista di nome Kurt Dussander. Il racconto è una riflessione intorno al fascino del male, al delirio della barbarie, al fondo oscuro che anima l’uomo, ogni uomo, arso nella menzogna:

“Oh, so bene come gli americani hanno distorto i fatti”, mormorò Dussander. “Ma al confronto dei vostri politici, il nostro dottor Goebbels sembra un bambino dell’asilo che gioca con innocui libri illustrati… I soldati americani che uccidono innocenti vengono decorati dal presidente, accolti in patria, dopo aver infilzato con le baionette i bambini e dato fuoco agli ospedali, con parate e stendardi”.

Da quel racconto è stato realizzato un film, nel 1998, L’allievo, di efficace potenza: l’ex SS è interpretato da un memorabile Ian McKellen.

Il racconto più bello, tuttavia, s’intitola Il corpo, ma è noto con il titolo del film che ha ispirato, Stand by Me, uscito 35 anni fa, girato da Rob Reiner (che nel 1990 spalma su schermo un altro capolavoro di King, Misery non deve morire). Il film è meraviglioso: narra il rito di passaggio compiuto da quattro ragazzini nell’Oregon del 1960, a Castle Rock, luogo immaginario – che appare in un lotto di libri di King, tra cui La zona morta, Cujo, Doctor Sleep –, cinto da boschi. Tutti e quattro, tredicenni, vivono dolori diversi, appartengono a classi sociali diverse. È estate, estenuati dalla noia – vita che rumina la vita – azzardano l’avventura. Uno dei quattro ragazzini ha origliato le chiacchiere del fratello più grande: Ray, un ragazzo scomparso da giorni, è stato trovato morto, nel bosco. I quattro si mettono alla ricerca del corpo, tentando un eroismo in differita, indifeso: scopriranno che il cadavere è lo specchio della loro giovinezza, ormai irrimediabilmente perduta.

Il corpo racconta l’oro dell’infanzia passato al crogiuolo della necessità. L’impossibile, che per il bambino è sempre dietro l’angolo, è svanito: conta la necessità, lo status, lo studio. Il bambino che poteva tutto, e levita sulle fiamme di ogni promessa, esaudito, ora deve scegliere, la Storia lo chiama, l’umanità preme, la corruzione avanza. Il bambino che sapeva trasformarsi in lupo, aquila, pietra, ora è soltanto uomo: la strettoia di copula-crescita-morte lo stringe. Il bambino non è più immortale.

Nel cast, importante – tra gli altri, ci sono Kiefer Sutherland, Richard Dreyfuss, John Cusak – spicca River Phoenix/Chris Chambers, il ragazzo più intelligente (e più inquieto) degli altri, quello che conosce gli inferi. In qualche modo, l’epopea di Stand by Me è replicata nella biografia di Phoenix, attore di prodigioso talento e clamorosa precocità, morto nel 1993, a 23 anni, di overdose, al Viper Room, tra Johnny Depp, Flea, John Frusciante e il fratello Joaquin. Fu, appunto, la fine di un’era, l’oro dei Novanta evaporato nella vertigine, sul corpo rapido, bellissimo di un ragazzo.

La vita si sviluppa passando per la morte, fronteggiandola: ecco il rito. O superi la morte, o la incorpori. La scoperta del cadavere, per paradosso, non lega i ragazzi in un patto indistruttibile; li separa per sempre. L’innocenza – questa parola di carta, che appena la tocchi fruscia, e fa paura – svanisce. Il racconto s’inserisce in quel filone, magnetico, della letteratura americana che indaga l’adolescenza, il passaggio, la strenua rivolta al mondo adulto. Si potrebbe impilare un canone intorno a quei testi, tra i più alti di sempre: L’orso di William Faulkner, Ciò che sapeva Maisie di Henry James, Il giovane Holden di Salinger, L’arpa d’erba di Truman Capote, Angelo, guarda il passato di Thomas Wolfe, La veglia all’alba di James Agee…

Il mondo rammemorato da King è quello in cui i ragazzini dormono all’aria, in sacco a pelo, lasciano i genitori vegetare nell’abulia, nella bulimia delle sofferenze basse, conoscono la sfida, non hanno il cellulare; è il mondo delle case sull’albero, dei patti di sangue, della fede nell’incredibile.

“Avevamo una casa su un albero, un grande olmo che sovrastava un terreno vuoto a Castle Rock. Oggi in quel lotto c’è una società di traslochi, e l’olmo è scomparso. Progresso”.

Una morte scioglie l’infanzia dei ragazzi; una morte rinnova il ricordo. Nella strategia narrativa, è uno dei ragazzi, Gordie, diventato scrittore – non particolarmente brillante – a raccontare la storia de Il corpo. Se ne ricorda dopo aver letto della morte di Chris, ucciso, come comanda la sua indole, per difendere un ragazzo in una rissa, per proteggere un debole. La prima morte è pareggiata dall’altra: ora le porte di Ade sono spalancate. “Le cose più importanti sono le più difficili da dire”, attacca il racconto, “Sono quelle di cui ci si vergogna, perché le parole le immiseriscono – le parole rimpiccioliscono cose che finché erano nella vostra testa sembravano sconfinate”. La distanza tra un racconto è il mito è proprio qui: il racconto ricostruisce in scala minore un episodio capitale, il mito dilata il mignolo a Olimpo. Sapremo ancora odorare il mito? Sapremo ancora scoprire il cadavere che giace nei meandri del nostro corpo, assiderato dai rovi?

“Dov’è sepolto il vostro cuore segreto…”: ecco il compito dello scrittore. Come Orfeo – e come un tombarolo –, come una iena e come un angelo, egli va a caccia del vostro cuore segreto.

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