“Tutto ciò che è profondo ama la maschera”

Friedrich Nietzsche 

Non è da tutti scrivere col sangue insieme ai Grandi evitando di strapparsi gli occhi. Non è da tutti reinventare il linguaggio per far rivivere nella casa dei lemmi l’Erlebnis e, in questa perigliosa frequentazione di sé, la filosofia nel suo più autentico, puro, conturbante, dialettico travaglio. Queste rare e nobili cose le sa fare però Manuel Rossini. Perciò, poiché le parole raccontano già la sua genialità e originalità, non c’è quasi bisogno di tirare in ballo l’aspetto più sconvolgente della sua esperienza vitale: scrivere quando si è malati di cancro e si è pressoché certi che la propria opera uscirà postuma. Nel suo ultimo libro – Ernst Jünger Reload– l’autore intende scandagliare la nostra epoca (non solo il contingente e transeunte “oggi”) alla luce delle intuizioni del solitario di Wilflingen – e in seconda istanza di Simmel e di Foucault. Questi filosofi – insieme a Heidegger, Löwith, Weber, Agamben, Esposito… – sono i compagni viaggio, gli s-copritori di una verità che si dona quando si nega. Già, perché l’opera di svelamento presuppone sempre uno spiare sotto le gonne dell’evento, che non è mai un arrivare, un giungere alla meta, un centrare. E questo Manuel lo sa, non si tratta di inquadrare da lontano l’oggetto. Non si tratta di piegare la cosa alla durezza dell’Intelletto, non si tratta di rivestire la verità dopo averla violentemente spogliata, non si tratta di incatenarla al letto della scienza e di violarla senza mai essere stati con lei una sola cosa. Si tratta viceversa di amarla, di porsi in sintonia con lo srotolamento del tappeto, si tratta di ri-levare leimpercettibili orme del sottobosco, il conio delle forme, l’Arché dietro il fenomeno, si tratta di accarezzare la pelle sotto il vestito, non di imporre una armatura di ferro, una cintura di castità.

Ma cosa è che si concede nel camuffamento, cosa è che stavolta si mostra mascherandosi? È principalmente la Mobilitazione Totale che a sua volta è funzionale – in un rapporto di reciproca dipendenza – al biopotere. Il biopotere è, come dice la parola, il potere sulla vita, ma è anche il potere di una forma di vita ed è il mutamento di un paradigma di Dominio – è la totalitaria e spesso occulta capacità del potere di piegare alle proprie disumanizzanti esigenze tutti i suoi ignari soldatini, è la forza che, “a caro prezzo dell’umano”, “ri-produce la vita”. Tale potere che priva l’uomo della sua irripetibilità e che lo rende schiavo proprio nel momento in cui egli crede di essere massimamente libero, si dipana sempre quale inarrestabile potenza organizzativa. E non importa il motivo della mobilitazione – non importa che questa avvenga in uno Stato esplicitamente totalitario o per così dire democratico, non importa che ci sia Mussolini a torso nudo sul trattore o il Presidente della Repubblica alla TV in abiti austeramente borghesi: il fine non sono affatto loro. Non importa che la massa sia mobilitata intorno all’idea politicamente corretta della difesa dei diritti umani o a quella pubblicamente abborrita della guerra – importa solo che sia mobilitata, plagiata, forgiata, formata, indirizzata. Importa che l’informe diventi una costruzione (costrizione)organica in cui le parti sono però interscambiabili, importa che le parole dell’Ordine siano sempre le stesse, che siano sempre e dovunque ripetute, nei luoghi del potere come nelle nostre case, nelle fabbriche, specialmente nelle scuole, nei social, in ospedale, alla posta, al mercato, dappertutto, in tutto il pienata (“il biopotere è il pianeta”). Importa non che le parole del potere siano vere, non che siano autenticamente buone, ma che siano tras-messe, spinte con luciferina violenza dentro di noi, nella nostra carne, nella nostra bocca, in fondo al nostro sangue. Manuel scrive che se un tempo il potere uccideva i dissenzienti e faceva vivere gli obbedienti, ora il parametro della sua espansione inarrestabile è un altro: “far vivere e lasciar morire” – e tale principio si collega sempre col dispositivo “inclusione/esclusione”. Il biopotere è infatti oramai talmente forte che non ha in generale – ma esistono pure le eccezioni – bisogno di uccidere: basta imporre implicitamente il costume del tempo e chi non lo vestirà sarà buttato giù dalle scale, tutti lo indicheranno, vivrà nel ripostiglio della società, nella gattabuia di una etichetta – e sarà paria, reietto, vituperato, allontanato:

“Chi è escluso dalla società totale è incluso nel Lager, dove viene a trovarsi in una nuova realtà costruita ad hoc solo per lui”.

L’inclusione – parola manifesto di ogni attuale campagna educativa – esclude che si possa essere dissidenti senza alla lunga rischiare se non la pelle l’assoluto isolamento, finanche la stima conquistata negli anni, finanche l’amore di alcuni, l’amicizia, la famiglia, il lavoro (lascia morire, non ti preoccupare di uccidere, la morte verrà da sé e avrà gli occhi del biopotere!). Far vivere significa ri-creare la vita, vale a dire concedere una nuova esistenza de-umanizzata a chi accetta idee, principi, modi di fare e di essere imposti dal biopotere; lasciar morire (escludere senza uccidere fisicamente) indica invece lasciare che si spenga da sé chi non rinuncia alle proprie peculiarità individuali, chi non accetta di essere solo Lavoro, chi nei media non ripone alcuna fiducia, chi nei palazzi delle istituzioni non vede santi, chi custodisce il diritto di non credere, di non assentire, il diritto di dubitare, di sentire e di pensare. Siamo davanti a un mutamento ontologico, cosmologico che “si muove alla base del mondo”, che concerne l’essere nella sua globalità – e solo per questo antropologico.Il biopotere “sforna infinite riproduzioni perfettamente identiche”, sforna copie di sé, zombies ri-prodotti in serie perché solo rendendo tutto e tutti uguali il dominio può essere totale. Così la magia si realizza, così la tecnica è forza cultuale, forma di vita che da sotto regola l’agire, astuzia che si ciba dei nostri desideri, che crea nuovi inutili bisogni, volontà che si ciba delle nostre volontà, che crea false volontà, delle nostre individualità. Così esiste un solo spirito, un solo sentire, un solo morire: una sola maschera, un unico processo di totale travestimento che smussa le differenze tra gli individui, tra gli ambiti, tra i ranghi, tra i ruoli, tra i sessi. La cosalizzazione dell’uomo, l’ossessione per la corporeità, la spettacolarizzazione del dolore, la rete che imbriglia le anime, la pubblicità senza confini, il mezzo che si fa messaggio, l’ambizione alla salute assoluta, la religione del Lavoro sono veicolati di continuo attraverso infiniti mezzi tecnici – “tutto si riduce a una prestazione tecnica, automatica, calcolata con precisione”. Il testo di Manuel non ha solo una istanza sociologica (tratta forse da Simmel) e squisitamente metafisica, ma anche prettamente estetica. Infatti è attraverso l’illustrazione delle immagini del Sillabario di Jünger e Schultz nonché attraverso l’esegesi delle figure che quotidianamente ci assediano che il filosofo ha modo di vedere – come sé l’immagine fosse platonicamente l’aspetto sensibile della idea – il tocco di qualcosa che trascende l’estemporaneità della foto-grafia (scrittura di luce, ricorda Manuel). L’arte – financo la sua degenerazione, financo l’effige tecnicamente riprodotta – racconta sempre, seppur filtrata, la verità; non solo, la ri-scrive immortalando inconsapevolmente l’essenza della mobilitazione che è il suo stesso essere passeggero, il mutamento, il paesaggio da cantiere. E la verità è ancora e sempre la stessa: la Mobilitazione Totale che, attraverso un linguaggio tecnico e tranquillizzante, trasforma tutto in Lavoro: è l’opera di normalizzazione del dominio, il mascheramento, il lasciar vivere. Il Lavoro è la stessa mobilitazione totale, è la mobilitazione che lavora, la dis-posizione della massa al movimento senza pensiero. Il Lavoro è forzare e spegnere la vita nell’ingranaggio tecnico, è una organizzazione meccanica che fagocita anche il tempo libero, il vizio, lo sport, il divertissement, che occupa completamente lo spazio amalgamando ambiti diversi. Il lavoro è guerra e la guerra è una forma del Lavoro. La macchina fotografica che punta l’oggetto è un’altra versione del mitra, il trattore che dissoda la terra secondo imperscrutabili volontà metalliche è l’alter ego del carro armato. Il filosofo pre-vede le forze in campo come se fossero espressioni differenti della stessa istanza, della stessa forza, colori diversi e in continuo mutamento della stessa tavolozza. Il filosofo dissotterra le radici da cui si eleveranno gli alberi – corrotti – del presente. È così che la stessa situazione attuale – pandemia che assurge a principio di Mobilitazione Totale fornendo al biopotere l’occasione di imporsi totalmente – è letta nei suoi fondamenti, nelle sue linee di sviluppo prima ancora che si appalesi – già, Manuel è morto prima. È così che oggi – dopo Manuel – negli asettici luoghi dell’inquadramento sanitario si racconta, si sussurra dietro la copertura, la stessa storia, si comunica, si predica, la stessa cosa: Mobilitazione Totale, mascheramento, inglobamento: inclusione ed esclusione – e non c’entra affatto dissentire o assentire, c’entra solo vedere. Sì, perché il percorso era già stato tracciato, perché la Mobilitazione Totale era già tale, perché i potenti erano già pedine – e noi eravamo già schiavi. Ed è sufficiente leggere il seguente passo per capirlo:

“La nota asserzione di Schmitt (…) “sovrano è colui che decide sullo stato d’eccezione”, è superata nella “banale” constatazione del biopotere che oggi non esiste più nessuna eccezione, poiché ciò che lo era è diventato normale, è ora la regola, e l’azione del biopotere è l’espressione legittima e sovrana di questa autorità e normalità. Sovrano, quindi, non è chi decide, bensì chi normalizza lo stato d’eccezione e normalizzare l’eccezionalità significa enunciare il carattere bellico della pace e il carattere normale (pacifico!) della guerra”.

Ecco, Sovrano non è chi decide di imporre lo stato di eccezione; è Sovrano il processo della normalizzazione della perdita della libertà e chi, rotella da ingranaggio, ci fa abituare alla de-individualizzazione, chi uccide l’eccezione nella regola senza senso, chi utilizza le parole di guerra in tempo di pace, chi ci fa sentire sotto assedio, chi vuole sradicare dall’umano tutto il dolore, chi ci muove in un solo modo, il pifferaio più subdolo, lo stregone che non si vede: il biopotere che apre uno spazio globale, uno “spazio imperiale, smisurato” dove però non compare nessun Kaiser, Presidente o Re, uno spazio “autoreferenziale”, che “si controlla da sé”. Sovrano è chi occulta l’oppressione rendendola consuetudine. Sovrano è anche chi riesce a demolire gli individui nei ruoli, nelle de-finizioni, nelle categorie che nell’includere escludono. Sovrano è chi impone il bavaglio come normale, è chi impone un tipo di linguaggio come l’unico linguaggio, chi impone una sola verità, è chi – ancora una volta e per tanto tempo ancora – fa vivere e lascia morire.

Del libro di Manuel non colpisce solo l’incredibile capacità prognostica che ne fa un degno discepolo del “sismografo” Ernst Jünger, ma anche il coraggio – quello che forse si acutizza quando oramai non c’è più nulla da perdere e che, come scrive Luigi Iannone nella postfazione, lo fa essere, pur nella disperazione, incredibilmente “didascalico e puntuale”. Il coraggio che gli permette di andare oltre i suoi maestri – quasi fossero la stampella che invita a camminare da soli, quasi fossero solo un sostegno e fosse un dovere, poi, tenersi in equilibrio sulla corda, da soli, tesa sul rischio. Come testimonia anche Giovanni Giorgini nella interessante prefazione, Manuel è filosofo perché ama la conoscenza e riconosce se stesso come figlio di mancanza. La sua tensione alla verità è totalizzante, viene da dentro, è malattia e cura, non si ferma neppure davanti alla morte, anzi la piega la morte alla trasfigurazione immaginifica e la filosofia torna a essere ciò che deve essere: tragica esperienza della vita, tragico abbellimento della ferita, sublimazione, onore, ardimento, poesia. Così Manuel ha la forza di dire a Ernst Jünger – certo con tanta amarezza – che il Lavoratore ha trionfato e che né il Ribelle né “l’Imboscato” riusciranno a ribaltare la situazione. La mobilitazione è totale, il biopotere ha vinto, combattere contro il sistema quando il sistema è dentro di noi è combattere contro se stessi sino all’autodistruzione – di sé, non del sistema.

Svanisce anche Manuel come tutti i figli del tempo. E il suo libro – nel presente immobile della totale mobilitazione del mondo – è come se non fosse mai stato scritto. Queste le note finali, le ultime considerazioni. Eppure, come un tesoro prezioso, il libro è ancora qui. E il mondo è ancora lì– proprio come l’ha descritto lui. Lui che si congeda così: “continua…” – e noi che diciamo di sì: continua tutto come hai visto tu.