Anteprima Il libro di Rosemary Sullivan in uscita giovedì (HarperCollins) ripercorre un’indagine di anni. E svela che è stato il notaio ebreo Arnold van den Bergh a indicare ai nazisti l’indirizzo dove si trovavano la giovane, la famiglia e altri perseguitati
di Frediano Sessi
Anne Frank
Il 4 agosto 1944, verso le 10.30 una macchina della polizia tedesca si fermò ad Amsterdam davanti all’edificio della Prinsengracht 263, sede della società Opekta Pectacon. In quella casa, in un alloggio all’ultimo piano sul retro, si nascondevano da due anni e trenta giorni otto ebrei: la famiglia Frank, la famiglia Van Pels e il dentista dottor Pfeffer. Comandava l’operazione il sergente maggiore SS Karl Josef Silberbauer, austriaco, con al seguito poliziotti olandesi in abiti civili. Racconta il signor Victor Kugler (chiamato Kraler nel Diario di Anne Frank ): «La polizia volle vedere i magazzini sul lato della strada, e io aprii le porte. Pensai, se non vogliono vedere altro, va ancora bene. Ma dopo (…) il sergente maggiore uscì nel corridoio e mi ordinò di seguirlo. All’improvviso, mi ordinò di scostare lo scaffale dal muro e di aprire la porta sul retro». Questo, in breve uno dei racconti più accreditati del momento dell’arresto. Anne e Margot Frank, il padre Otto e la madre Edith, i loro amici Herman van Pels, con la moglie Auguste e il figlio Peter, il dottor Friedrich Pfeffer, dopo un breve periodo trascorso nel campo di transito olandese di Westerbork, il 3 settembre vennero deportati ad Auschwitz-Birkenau. Al momento della liberazione, soltanto Otto Frank fece ritorno a casa.
L’attesa di notizie della moglie e delle figlie lo fece stare in ansia, finché quasi due mesi dopo venne a sapere con certezza che erano morte. Allora, Miep Gies, l’amica e collaboratrice, che negli anni della loro vita clandestina li aveva aiutati e protetti, decise di consegnare a Otto gli scritti di Anne ritrovati nell’alloggio segreto. Otto, dopo averli letti, decise che tutti dovevano conoscere il Diario della figlia e, mentre si apprestò a curare il testo per la pubblicazione, cominciò anche a chiedersi chi fossero coloro che li avevano traditi e denunciati alla polizia tedesca.
Nel luglio del 1947, quando ancora la magistratura olandese e le diverse commissioni giudiziarie erano impegnate a scovare e perseguire i criminali di guerra e i collaboratori dei nazisti, il Pra (Politieke Recherche Afdeling, Dipartimento investigativo politico della polizia) avviò una prima indagine per scoprire i colpevoli della delazione. Johannes Kleiman, uno dei collaboratori più stretti di Otto Frank, dichiarò che gli uomini della polizia tedesca erano a conoscenza anche della posizione del nascondiglio e di come vi si poteva accedere. Questa del Pra fu la prima indagine che, alla fine arrivò a mettere sotto accusa il magazziniere della ditta, signor Willem Van Maaren. Nell’aprile del 1948, l’uomo venne assolto dall’accusa, perché «gli indizi a suo carico risultavano molto vaghi» (Pra, Amsterdam).
Negli anni Cinquanta, quando il Diario di Anne Frank divenne un successo mondiale e la giovane ragazza fu considerata da tutti il simbolo dello sterminio nazista degli ebrei, Otto si dedicò a proteggere il libro della figlia dagli attacchi dei negazionisti che, sulla scorta delle dichiarazioni del francese Robert Faurisson, mettevano in dubbio la sua autenticità. Fece in modo che la memoria di Anne e della sua famiglia fosse preservata nel tempo, mediante la conservazione dell’alloggio in cui avevano vissuto nascosti tutti insieme, che divenne una Fondazione con lo scopo di promuovere la cultura della tolleranza e della pace e la lotta contro il razzismo e l’antisemitismo.
Dimenticò, forse volutamente, quel suo sospetto espresso nel 1948 che a tradirli fossero stati degli ebrei.
Da quando il primo imputato venne assolto, le indagini per scoprire i delatori, portate avanti da ricercatori e storici si susseguirono, senza mai giungere a una risposta che non fosse una mera ipotesi indiziaria.
Il libro scritto dalla poetessa e biografa canadese Rosemary Sullivan, Chi ha tradito Anne Frank (HarperCollins) ci consegna oggi una risposta definitiva e al tempo inquietante alla domanda. Sullivan da voce a un’indagine unica nella storia, per il numero di ricercatori e investigatori coinvolti e per le tecniche utilizzate, che hanno consentito di costituire e organizzare gli archivi dei dati raccolti con un programma di intelligenza artificiale, mai utilizzato per una ricerca di questo tipo.
I responsabili di questa equipe — composta da Thijs Bayens, cineasta olandese; Pieter van Twisk, storico e giornalista; e Vince Pankoke ex agente dell’Fbi — con l’aiuto di decine di ricercatori, archivisti, analisti forensi, storici, criminologi e tecnici informatici hanno passato al setaccio migliaia di documenti, in gran parte inediti, rintracciato e intervistato i discendenti di tutte le persone che conoscevano i Frank e che hanno avuto rapporti anche solo commerciali con la ditta di Otto, dando vita a un modello di indagine che si richiama ai cold case, e che li ha tenuti impegnati per cinque anni, dal 2016.
Dopo avere ricostruito, spesso con nuove scoperte, tutte le ipotesi accusatorie che si sono succedute negli anni e che Rosemary Sullivan descrive nella prima parte del libro, nel 2019 la squadra coordinata da Vince Pankoke arrivò alla conclusione che soltanto quattro piste di ricerca potevano essere davvero percorribili.
Il caso di Ans van Dijk, donna che aveva tradito circa duecento persone e che lavorava nel quartiere Jordaan, nelle vicinanze dell’alloggio segreto. La storia della sorella di Bep Voskuijl, una delle segretarie di Otto Frank, simpatizzante nazista. La vicenda del fruttivendolo Hendrik Van Hoeve, che forniva una grande quantità di merce, destinata agli impiegati della ditta Opekta, che faceva ipotizzare la presenza di molte altre persone nascoste nel palazzo: quando venne fermato dalla Gestapo poteva essere stato costretto a fornire informazioni, così come Richard e Ruth Weisz, da mesi nascosti nella casa del fruttivendolo, che una volta arrestati, nel giugno del 1944, ottennero un miglioramento della loro posizione penale.
Valutato che anche queste quattro piste non erano sostenute da prove sufficienti, tra tutti gli indagati rimaneva solo il notaio ebreo, membro del Consiglio ebraico di Amsterdam, Arnold van den Bergh.
Sposato con tre figlie, era stato membro della commissione del Consiglio ebraico che, su ordine dei nazisti, doveva selezionare i nomi degli ebrei da inserire nelle liste di deportazione. Ricco e rispettato, nato nel 1886, era riuscito a farsi inserire nella lista del tedesco Hans Georg Calmeyer che, ufficialmente, dichiarò la sua non appartenenza alla razza ebraica. Per questo, nonostante il decreto nazista che obbligava i notai ebrei olandesi a cedere la loro attività, Arnold van den Bergh poté svolgere il suo lavoro fino al gennaio del 1943, fino a quando un collega ariano, destinato a occupare il suo studio, J. W. A. Schepers, lo denunciò alle SS e gli fece perdere i suoi privilegi.
Nel gennaio del 1944, Arnold van den Bergh venne informato dall’ufficio di Calmeyer che da quel momento lui e la sua famiglia erano passibili di arresto. Dopo essere riuscito a mettere in salvo le figlie grazie ai suoi conoscenti che militavano nella Resistenza, come moneta di scambio per salvare se stesso e la moglie, offrì alla polizia tedesca un certo numero di indirizzi di ebrei nascosti, senza sapere che la numero 263 di Prinsengracht c’erano i Frank.
Ebrei venduti ai nazisti da un ebreo, una scoperta sconcertante, ma ormai da anni studiata e approfondita dagli storici dell’Olocausto e dai sopravvissuti, tra i quali Primo Levi. Nell’elaborare il concetto di «zona grigia», a partire da un libro di uno storico olandese, Jacob Presser, che ha raccontato la lotta per la vita degli ebrei prigionieri dei nazisti, Levi scrive: «È ingenuo, assurdo e storicamente falso ritenere che un sistema demoniaco, qual era il nazionalsocialismo, santifichi le sue vittime: al contrario esso le degrada, le sporca, le assimila a sé».
Nel libro di Rosemary Sullivan, scritto come un romanzo, oltre alla conclusione scioccante, si coglie la pietas che la scrittrice rivolge al colpevole, contagiato dal male, e si comprende bene come ciò renda ancor più colpevoli i tedeschi. L’autrice, nel proporre al mondo la scoperta della verità, non si sofferma a esprimere un giudizio morale, perché sa che la condizione di offeso non esclude la colpa e se anche questa è obiettivamente grave, come ci ricorda Levi, non c’è tribunale umano «a cui delegarne la misura».
Il libro, curato in modo eccellente, con un buon apparato di note e bibliografico, fornisce elementi importanti a comprendere anche il contesto storico in cui ebbe luogo questo dramma.