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Il «progetto italiano» di Moderna: un impianto per vaccini e ricerca

Giuseppe Sarcina

WASHINGTON Gli americani di Moderna sono pronti a investire in Italia, costruendo da zero un impianto che comprenda la produzione dei vaccini e i laboratori per la ricerca avanzata.

L’azienda di Cambridge, Massachusetts, non sta cercando una partnership, come si era ipotizzato in un primo momento. L’idea, invece, è quella di costituire un polo multifunzionale che esporti in Italia l’intero pacchetto di conoscenze biotecnologiche accumulate da Moderna dal 2011, anno in cui ha cominciato a operare.

Il ministro dello Sviluppo economico, Giancarlo Giorgetti, ha visitato la sede della società giovedì 21 ottobre, nel corso della sua recente visita negli Stati Uniti. Poi si è limitato a confermare di «aver riscontrato un grande interesse per l’Italia», senza aggiungere altri dettagli.

La corporation dispone di abbondanti risorse finanziarie. Nel 2020 ha ricevuto circa un miliardo di dollari dal governo federale americano per coprire le spese di ricerca e di produzione del vaccino anti Covid-19. Inoltre ha raccolto ingenti capitali in Borsa, con la quotazione nel listino Nasdaq. Nel bilancio semestrale (giugno 2021) si legge che può contare su un fatturato di 4,35 miliardi di dollari, con 3,13 miliardi di dollari di ebitda, cioè l’utile prima delle imposte: una redditività impressionante. In conclusione ci sono 4,2 miliardi di cash flow, cioè liquidità non ancora utilizzata.

Solo una frazione di tutto questo denaro dovrebbe arrivare in Italia. Quanto? Non ci sono indiscrezioni sulle cifre. Ma si sta ragionando su qualche centinaio di milioni di euro. Del resto solo un bioreattore indispensabile per la lavorazione di 100 milioni di dosi all’anno costa circa 70 milioni di euro.

Dove potrebbero planare gli stanziamenti? Stèphan Bancel, amministratore delegato e uno dei principali azionisti, sta esaminando diverse possibilità. Nelle scorse settimane erano emerse due ipotesi: l’area di Anagni (Frosinone) dove ha sede la filiale dell’americana Catalent Pharma Solutions, che qui si occupa dell’infialamento del vaccino AstraZeneca; oppure Monza, dove opera un’altra corporation statunitense, la Thermo Fischer, che confeziona le dosi di Pfizer.

Moderna potrebbe stabilire rapporti di collaborazione sia con l’una che con l’altra impresa, appaltando all’esterno l’ultima fase della produzione dei vaccini. Ma per il resto il «progetto italiano» sarebbe gestito in totale autonomia. Si partirà, chiaramente, dal farmaco contro la pandemia, ma produzione e ricerca riguarderanno anche le altre applicazioni della tecnica «messenger Rna»: oncologia, immunoterapia, altri virus e malattie rare.

Per l’Italia è un’occasione non solo per rafforzare la strategia anti Covid, ma anche per acquisire uno dei filoni scientifici e tecnologici più innovativi e promettenti. Sarebbe anche il modo migliore per recuperare il terreno perso nel 2020. Nel maggio dell’anno scorso Moderna cercava una sponda industriale nell’Unione Europea. Non si fece avanti nessuno. Così l’azienda di Cambridge concluse un accordo di dieci anni con la svizzera Lonza.

 

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