La sintesi migliore la trova Claudio Agosti, sviluppatore software ed esperto di privacy e sicurezza informatica, che in queste settimane sta anche lavorando a un interessante progetto open source per studiare come si comporta l’algoritmo di Facebook in vista delle elezioni: “Quando stai navigando su un sito – osserva – in realtà stai navigando su molti siti”. Di che cosa si tratta? Società che raccolgono e analizzano le tonnellate di dati che gli utenti producono inconsapevolmente durante la navigazione. Formiche sotterranee che si muovono e lavorano in incognito ma che insieme alimentano il business multimiliardario della raccolta, elaborazione e cessione dei dati. Gli addetti ai lavori la chiamano pubblicità comportamentale, ma dietro al gergo da manuale di marketing c’è una realtà che gli utenti conoscono bene da molti anni: inserzioni sempre più mirate rispetto a profilo, gusti e ricerche recenti degli utenti.
Agosti mostra un esempio direttamente dal suo progetto. Un elenco di link di alcuni articoli letti e condivisi in rete nelle ultime ore. Accanto alla url della pagina di una famosa testata web ci sono i nomi di 61 compagnie che trattano i dati di chiunque visiti quella pagina. Tra questi, moltissimi nomi sconosciuti ma anche diversi volti noti come Google, Facebook e Amazon. Lo strumento principe è quello dei cookies, una sorta di informazione che i siti web lasciano sui nostri computer come traccia della navigazione, anche se la tecnologia in questo campo ha fatto molti passi avanti nell’ultimo decennio. I più semplici sono installati dai proprietari della pagina stessa, a cui fa comodo ad esempio riconoscere un utente che è già passato di lì. Se abbiamo prenotato volo partendo da Milano, il sito vorrà impostare Milano come città predefinita, riducendo così i tempi di prenotazione.
Diverso è il caso invece quando gli stessi cookies sono inseriti in pagina da soggetti terzi. In questo caso la raccolta dei dati attraversa percorsi di navigazione molto più lunghi. Ovunque queste “spie” osservano quello che facciamo da un sito ad un altro, cosa leggiamo, per quanto tempo, cosa guardiamo prima e dopo e così via. L’insieme di queste informazioni, aggregate, costituisce la miniera per chi sul web si trova a vendere inserzioni pubblicitarie.
Un’intrusione nella nostra privacy non indifferente e che ha spinto nel 2014 il Garante per la protezione dei dati personali a introdurre l’obbligo per tutti i siti che utilizzino i cookies di rendere visibile un banner in homepage che avverte dell’utilizzo di questi strumenti e con quali soggetti coinvolti. Un passo in avanti per la tutela degli utenti ma con alcune criticità. “In tutti i casi, il consenso non è veramente informato e non ci sono vere alternative. Quindi sebbene vengano riconosciuti i diritti del cittadino in termini di dati personali, e viene specificato chi fa il trattamento, è stato legittimato un mercato che continua alle spalle di chi naviga”, evidenzia Agosti.
La raccolta di informazioni non si ferma nemmeno alle porte delle singole piattaforme. Cosa ci fanno le “spie” di Facebook fuori dal social network, in un articolo che parla dell’ultima vittoria alle olimpiadi invernali? Continuano a raccogliere dati anche fuori dal perimetro del social. Anche dopo avere chiuso le finestre, ammesso di essere rimasti loggati. Una pratica controversa che in Europa ha già cominciato a incontrare più di un ostacolo. Il 16 febbraio un tribunale belga ha ordinato alla società di Mark Zuckerberg di interrompere immediatamente la raccolta dei dati al di fuori della piattaforma, pena una multa da 250 mila euro per ogni giorno di violazione.
C’è poi un’ulteriore questione: prima ancora di svolgere qualsiasi attività o ricerca in una pagina però, la mole di informazioni che comunichiamo inconsapevolmente in Rete è enorme. Un altro progetto open source, Webkay, offre uno strumento molto chiaro per mostrare quanto qualsiasi sito, indipendentemente dal nostro consenso, abbia accesso a delle informazioni su di noi che non sempre siamo consapevoli di fornire. Tanto per cominciare, chiunque sa dove ci troviamo. Non il Paese o la città, ma – con margini di errore trascurabili – la via o il quartiere. Proviamo nell’istante in cui stiamo scrivendo. Il tool ci posiziona in via Sannio 22, a 300 metri circa dalla sede di Repubblica dove ci troviamo. Ovviamente forniamo informazioni sul tipo di device che utilizziamo (pc, tablet o telefono), quale browser e che sistema operativo. Informazioni che offrono indicazioni importanti sui profili osservati. Utilizzare uno smartphone di ultima generazione può dire ad esempio che siamo potenziali consumatori dell’ultimo, costosissimo, gadget messo sul mercato da qualche azienda tecnologica. Non è finita. Un ipotetico sito che visitiamo sa a quali social network siamo loggati. E tra le informazioni che condividiamo c’è anche, se usiamo un comune iPhone ad esempio, come lo stiamo impugnando, se siamo indirizzati verso Nord o verso Sud, e dal tipo di inclinazione persino se il telefono è in mano o appoggiato sul tavolo.
Se queste sono le informazioni che trasmettiamo senza compiere alcuna azione non sorprende che ogni nostra mossa sul web, passata ai raggi X, possa diventare materia preziosa per la pubblicità. Inserzioni non soltanto sempre più precise, ma divenute nel corso degli anni sempre più invasive nel corso della navigazione. I vecchi popup appartengono alla preistoria di Internet. Oggi gli annunci hanno raggiunto livelli di sofisticazione che da un lato ne hanno migliorato l’efficacia ma dall’altro hanno alimentato un’insofferenza da parte degli utenti che ha generato a sua volta un nuovo problema: il sempre più frequente ricorso agli ad blocker, strumenti che limitano o eliminano le inserzioni. Una benedizione per gli utenti, un’enorme minaccia per inserzionisti o publisher, che senza la pubblicità rischiano di rimanere a terra.
Apparentemente a sorpresa, alcuni giorni fa, è arrivata la notizia che l’ultimo ad blocker lanciato sul mercato porta la stessa firma di chi con le inserzioni pubblicitarie macina qualcosa come 24 miliardi di dollari l’anno, l’84% dei suoi ricavi totali: Google. Non un suicidio consapevole, ma una mossa lungimirante di contenimento del danno che Agosti spiega così: “Questo strumento non rimuove tutte le pubblicità, ma soltanto le più fastidiose. Vuole cioè che la navigazione sia più fruibile e che le inserzioni rispettino determinati criteri. Le prime analisi mostrano che blocca il 16% delle inserzioni mentre altri ad blocker fermano il 93%”. Ma il punto, per l’azienda di Mountain View, è occupare uno snodo che altrimenti rischia davvero di mettere in pericolo il proprio business pubblicitario. Invece di eliminare la pubblicità, ingabbiarla secondo le proprie regole.
Senza mettere in pericolo la sua principale fonte di ricavi: “Il cosiddetto ad-blocker di Google – rimarca Agosti – non è veramente un bloccante, ma un filtro perché il problema del tracking rimane, mentre gli altri blocker come Adblock plus, Ghostery o uBlock bloccano davvero i traccianti e quindi la raccolta dei dati”. In altre parole, meno inserzioni invasive in superficie ma nessuna reale modifica al business che prospera sottotraccia.