E ora Matteo Renzi teme la scissione Pd: domenica anatema contro i ribelli, caos nelle regioni.

RENZI E BOSCHI
L’appuntamento per la grande sfida nel Pd è per domenica all’assemblea nazionale al Salone delle feste dell’Eur, guarda caso lo stesso posto che poco più di un mese fa ha ospitato la cena romana di autofinanziamento del partito, quella con centinaia di imprenditori e ospiti vari tra cui anche Salvatore Buzzi e altri indagati dell’inchiesta su ‘mafia capitale’. Al Salone delle Feste, Matteo Renzi lancerà il suo anatema politico contro i dissidenti che ieri hanno tradito il governo sulle riforme costituzionali in commissione alla Camera. Un incidente che non doveva capitare, un incidente per il quale Renzi si è infuriato – sembrerebbe – persino con i suoi, a cominciare dal ministro Maria Elena Boschi, che era lì presente eppure incapace di evitare l’approvazione di quell’emendamento che elimina i senatori di nomina presidenziale, proposto da Sel e approvato con i tradimenti del Pd e di Forza Italia. Un segnale politico che guarda direttamente all’ormai prossima elezione del successore di Giorgio Napolitano al Colle. Non doveva succedere, non è così che si sta in un partito, ripetono oggi i renziani tra Camera e Senato. E da Ankara il premier ‘minaccia’ l’appuntamento di domenica: il fatto è che ora Renzi teme la scissione del Pd o la nascita di un’altra forza di sinistra. Gli sfugge il filo delle riforme in Parlamento e quello del partito anche a livello territoriale, soprattutto nelle regioni interessate al voto l’anno prossimo.

Chi tradisce, tragga le conseguenze. “Il voto in commissione” alla Camera “è stato considerato come un segnale politico. Di segnali politici ne parleremo in modo chiaro in Assemblea”, tuona Renzi dalla Turchia, dove si trova in visita di Stato. Che tipo di segnale politico? Alla Camera circolano diverse voci sull’argomento. Persino quella che racconta di un Roberto Speranza, capogruppo Pd a Montecitorio, che avrebbe minacciato l’espulsione dal partito parlando a Gianni Cuperlo, punto di riferimento di minoranza. Della serie: se non vi adeguate, avviamo le procedure. Ma questa voce viene smentita dai renziani. Per ora, il premier-segretario si tiene ben lontano da ipotesi di espulsione dei non allineati. Però ha deciso di usare la clava domenica all’assemblea del Pd. Il succo sarà più o meno questo, lo spiegano i suoi: “Non si può stare in un partito e lavorare contro, presentare mille emendamenti alla legge di stabilità, altri che cambiano i connotati all’Italicum in Senato, mettere in difficoltà il proprio governo in Parlamento. Chi continua così, dovrà trarne le conclusioni…”.

La conta in assemblea. Potrebbe sembrare l’indicazione della porta d’uscita dal partito. Ma in realtà in assemblea seguirà un voto sulla relazione del segretario, che i renziani pensano di approvare a larga maggioranza. Viene dato per scontato il no dei civatiani, i quali sabato, alla vigilia dell’assemblea nazionale, lanciano il loro “patto con gli elettori” a Bologna, un “anti Patto del Nazareno” insieme a Sel e quanti ci staranno. A Bologna non ci saranno esponenti di altre minoranze del Pd, né sabato si consumerà una rottura ufficiale col partito di Renzi. Ma domani chissà: dipende da cosa matura, ti rispondono.

Il voto anticipato e il fuggi fuggi in Parlamento. Di certo i tempi sono maturi per far scattare l’allarme massimo tra Palazzo Chigi e Largo del Nazareno. C’è l’incidente di ieri in commissione, che ha fatto scattare i nervi a Renzi, il quale pare si sia incollato al telefono per chiamare tutti, capire cosa fosse successo, perché il governo è andato sotto. Il premier avrebbe chiamato anche Matteo Orfini, dimenticando che proprio in quel momento il presidente Pd, commissario incaricato di gestire il partito romano colpito dall’inchiesta su ‘mafia capitale’, era impegnato nell’incontro in piazza al Laurentino 38. Non proprio una roba da poco, tanto che l’incredulo Orfini avrebbe risposto al telefono: “Che è successo? Non so, sono al Laurentino…”. In Parlamento si naviga a vista. La semplice possibilità del voto anticipato a maggio, ventilata sui media da ieri, ha scatenato il rompete le righe: da un lato, la minoranza a fare blocco sulle riforme, dall’altro Renzi a tentare di recuperare un po’ di ordine. Tanto che oggi da Ankara il premier è tornato a smentire di voler andare al voto: “Per quello che mi riguarda la legislatura finisce a febbraio del 2018”.

D’Alema vs Delrio. Da Roma il sottosegretario Graziano Delrio ribalta l’accusa alla minoranza: “Se vuole andare a votare lo dica. Noi vogliamo continuare e arrivare fino al 2018″. Non serve a placare lo scontro interno. Anzi. Ne scaturisce un battibecco infuocato con Massimo D’Alema: “E’ stupefacente che una persona ragionevole come il sottosegretario Delrio, nel giorno in cui escono i dati della produzione industriale con l’ennesimo segno meno a conferma della gravità della crisi del nostro paese, non trovi di meglio che minacciare i parlamentari”.

Allarme scissione. L’impressione è che i buoi siano scappati o che si apprestino a farlo. Per evitare che il quadro si sfilacci ulteriormente, Renzi lavora per mandare definitivamente in soffitta il Consultellum. Un sistema proporzionale sarebbe infatti un invito a nozze per chi medita propositi di scissione al prossimo giro. E’ per questo che il premier pensa al Mattarellum, come legge elettorale da usare nel caso di voto anticipato l’anno prossimo. I suoi già fanno i conti: “Con il Mattarellum, chi si mette a sinistra di Matteo dovrà spartirsi la debole quota del 25 per cento di proporzionale, tutto il resto è maggioritario…”. Però la questione è più complicata di così. Perché ora, con un emendamento alla legge elettorale, gran parte della minoranza Pd in Senato (Vannino Chiti in testa più un’altra ventina di senatori) chiede di non perdere altro tempo sull’Italicum e riportare in vita il Mattarellum, senza se e senza ma. Dall’altro lato, Forza Italia ed Ncd chiedono di mantenere invece il Consultellum, come norma transitoria in attesa dell’Italicum. In mezzo, nel guado, Renzi. Che è pronto a resuscitare il Mattarellum in caso l’Italicum non veda la luce, ma non ora, non prima dell’elezione del nuovo presidente della Repubblica, appuntamento per il quale ha bisogno dell’intesa con Silvio Berlusconi, che come è noto al Mattarellum è ‘allergico’. E poi ci sono le avvisaglie di rivolta interna da parte di quei renziani che temono di non essere candidati al prossimo giro: alcuni senatori di maggioranza appoggerebbero infatti il subemendamento del bersaniano Miguel Gotor che abolisce i 100 capilista nominati.

Il caos nelle Regioni. Un ginepraio che è quasi palude. E tale potrebbe rimanere fino all’elezione del successore di Napolitano al Quirinale, appuntamento per il quale tutti stanno riscaldando i motori. Non aiuta il caos nelle Regioni. In Toscana, per dire, è arrivata oggi la ritorsione renziana per i tradimenti della minoranza in Parlamento sulle riforme. All’improvviso, infatti, è stata annullata l’assemblea regionale del Pd che sabato avrebbe dovuto ricandidare alle prossime regionali il governatore uscente Enrico Rossi, assolutamente non renziano. Tutto in alto mare. E così anche la Toscana, dove l’accordo su Rossi era ormai fatto, si aggiunge alla lista delle regioni ancora nel caos. In Campania, le primarie tra Cozzolino e De Luca sono fissate per l’11 gennaio, ma da Roma spingono per la candidatura di un ‘terzo uomo’ (l’ex Sel Gennaro Migliore, secondo i rumors) che possa evitare la competizione interna: si teme il flop come in Emilia Romagna, nonché infiltrazioni di ogni genere, come è successo alle ultime primarie campane. Proprio alla luce del mondo sommerso portato alla luce dall’inchiesta su ‘mafia capitale’, al Nazareno si preferirebbe evitare. Ma in Campania Cozzolino e De Luca resistono. E poi c’è la Basilicata, dove è scoppiata la grana sul senatore Salvatore Margiotta, renziano, condannato in secondo grado per turbativa d’asta e corruzione in riferimento ad un appalto per la costruzione del Centro Oli Total di estrazioni petrolifere in Basilicata. Margiotta si è autosospeso dal partito, il capogruppo Dem a Palazzo Madama Luigi Zanda confida nell’assoluzione in terzo grado (come è successo nel primo grado), ma a Roma la notizia aggrava una situazione politica già pesante.