di Amedeo Balbi
Il premio Nobel per la Fisica a Roger Penrose, Reinhard Genzel e Andrea Ghez non è solo una conferma del momento d’oro che vive l’esplorazione dell’universo. È anche una dimostrazione del fascino esercitato dai buchi neri, probabilmente gli oggetti più strani e misteriosi del cosmo. Un fascino che non avvertono solo gli scienziati.
Non a caso, qualche anno fa il film Interstellar li ha messi al centro della storia, mostrandoceli da vicino. Sulla carta, un buco nero sembrerebbe la cosa meno fotogenica che c’è: una sfera completamente buia, una regione di spazio da cui nulla, neppure la luce, può tornare indietro. Eppure il film di Nolan riusciva a illustrare con efficacia gli effetti che esso produce su ciò che lo circonda. Un astronauta si avvicina al suo bordo, e quando torna dal compagno restato ad attenderlo sulla nave spaziale, lo trova invecchiato di anni. Il tempo, per chi si avvicina a un buco nero, scorre più lento, fino quasi a fermarsi. E la materia che lo avvolge si muove a velocità incredibili, riscaldandosi fino a produrre radiazioni che possono essere captate da distanze incalcolabili. Attorno ai buchi neri più grandi, persino le stelle turbinano rapide come scintille.
Un buco nero in fondo è un’assenza: uno squarcio nel tessuto della realtà, una parte di cosmo che ci è preclusa, un luogo in cui le stesse leggi della fisica potrebbero essere sospese. Come un pozzo senza fine, che non porta da nessuna parte, o forse porta in luoghi talmente estranei da essere inconcepibili.
Sembra roba da fantascienza, appunto.
Lo stesso Albert Einstein, che aveva gettato le basi concettuali per prevederne l’esistenza, non si rassegnava a credere che la natura potesse crearli davvero. Eppure, oggi siamo più certi che mai che i buchi neri esistono. Abbiamo sentito il rimbombo nello spazio-tempo che si produce, sotto forma di onde gravitazionali, quando due buchi neri si scontrano. E appena un anno fa abbiamo visto per la prima volta un’immagine dell’ombra scura di un buco nero stagliarsi contro il gas incandescente che lo avvolge. Era incredibilmente simile a quello che il film di Nolan aveva immaginato: ma dietro la fantasia cinematografica c’era in realtà la consulenza di Kip Thorne, uno dei massimi esperti di buchi neri e premio Nobel nel 2017 proprio per la scoperta delle onde gravitazionali.
In effetti, la scienza riesce talvolta a superare perfino l’immaginazione più sfrenata.
Come quando, negli anni ’60, Roger Penrose dimostrò che non c’era scappatoia, e che le equazioni di Einstein conducevano inesorabilmente alla formazione di una singolarità, il punto di densità infinita al cuore di un buco nero. Einstein era scomparso un decennio prima, e chissà se avrebbe accettato una soluzione del genere, lui che pure ci aveva spiegato che la materia deforma lo spazio, che il tempo scorre diversamente per osservatori diversi, e che passato, presente e futuro sono concetti relativi. Ma l’immaginazione, nella scienza, è subordinata all’evidenza.
Così, ciò che è davvero fantascientifico è essere capaci di scorgere e tracciare il moto delle stelle attorno al buco nero al centro della nostra galassia, come hanno fatto i gruppi guidati da Genzel e Ghez, rivelando ciò che non si potrebbe vedere.
La meraviglia della scienza è tutta lì: non solo nel proporci l’incredibile, ma nel provarci che è possibile.