È il museo la più grande opera d’arte della modernità

di Vincenzo Trione

Nella modernità si sono succeduti movimenti, fenomeni e poetiche, tra interruzioni, false partenze e ricominciamenti. In questo caleidoscopio di forme, forse c’è stato un solo punto fermo: il museo. Che, dopo essere stato costruito, riempito e consolidato, è stato sfidato, aggredito, profanato, messo in discussione. Si pensi alle dichiarazioni iconoclaste pronunciate da tanti protagonisti della avanguardie primonovecentesche: luoghi di conservazione statici, fermi e senza vita, avvolti dentro un’aura di anacronismo, i musei vengono descritti come templi di visioni senza vita. Eppure, proprio i futuristi e i dadaisti hanno attribuito a quelle istituzioni un potere quasi taumaturgico, concependole come cornici in grado di legittimare alcuni atti scandalosi.

Siamo dinanzi a complessi dispositivi mobili, capaci di rimodulare e di riarticolare gesti, discorsi, pratiche; assemblage che connettono elementi eterogenei in un disegno unitario, sempre in divenire.

Il dispositivo-museo connette differenze. Situa quadri e sculture in una dimensione metafisica; e, insieme, non è insensibile alle pressioni del mercato e alle oscillazioni del gusto. Si offre come eterotopia extra-temporale ed extra-territoriale, alimentata però dai visitatori. Ci conduce fuori dal flusso della vita activa e, al tempo stesso, è in dialogo con questo stesso flusso. Teatro all’interno del quale l’arte rivela la propria genealogia, ma anche palcoscenico di situazioni attuali.

In grado di tenere insieme tutela e ricerca, formazione e intrattenimento, questo originale medium pubblico combina e riscrive temporalità non contigue: ci ricorda chi siamo stati e chi siamo ora; e ci parla di una società che non vuole sopravvivere a sé stessa, ma abita il passato per inventare il futuro. Ma, soprattutto, il museo si presenta come una tra le più prodigiose opere d’arte totali dell’età moderna che, al suo interno, racchiude tante altre creazioni (quadri, sculture, fotografie, video). Un’opera d’arte totale, eterogenea e dissonante, attraversata da talenti e da segni diversi, destinata a farsi, a disfarsi e a rifarsi ininterrottamente nel corso dei secoli, testimonianza di una bellezza inintenzionale, espressione di un implicito, collettivo e diffuso Kunstwollen (volontà d’arte).

La storia di questo eccentrico palinsesto è ripercorsa ora da uno tra i più autorevoli museografi viventi, Krzysztof Pomian, in un imponente progetto critico ed editoriale intitolato Il museo. Una storia mondiale. Una storia mondiale, politica, sociale e culturale dei musei che, finora, nessuno aveva mai affrontato. Tre volumi che raccontano una vicenda quasi epica (il primo è appena stato pubblicato da Einaudi): Dal tesoro al museo; L’affermazione europea, 1789-1850 e Alla conquista del mondo, 1850-2020. Come un appassionante romanzo, che salda erudizione, sapienza ermeneutica e gusto per l’affabulazione. Un lungo viaggio: dalle tombe egizie e cinesi ai tesori reali, dagli Uffizi, al Louvre, fino agli scenari dei giorni nostri. Un opus magnum esito di più di mezzo secolo di studi portati avanti con rigore, acume e maestria archivistico-filologica dallo storico dell’arte polacco (Varsavia, 1934), da anni trapiantato in Francia, formatosi all’Università di Varsavia, espulso per ragioni politiche nel 1968, emigrato a Parigi nel 1973, direttore onorario del Cnrs (Centro nazionale per la ricerca scientifica), autore di libri tradotti in diverse lingue, che spaziano dalla teoria della storia (L’Europa e le sue nazioni, il Saggiatore) al collezionismo (Dalle sacre reliquie all’arte moderna, il Saggiatore, e Collezionisti, amatori e curiosi, il Saggiatore).

Nell’introduzione al suo libro, lei parla del museo come di un luogo strano e contraddittorio. Inutile, perché «non soddisfa alcuna necessità vitale», ma anche indispensabile, perché una società moderna non può essere concepita senza queste università di democrazia. Il museo è uno spazio pubblico, perché non appartiene a nessun individuo, ma è anche un territorio di profanazioni, perché «non partecipe di alcun culto religioso». Infine, le istituzioni museali mettono in scena il dialogo tra invisibile e visibile: portano qui frammenti che vengono dall’aldilà, da altre epoche.

«I musei ospitano oggetti già desacralizzati: ad esempio, le antichità pagane delle società cristiane, gli accessori liturgici cattolici, i beni dei reali e quelli dei nobili (dopo la Rivoluzione francese). I musei espongono anche patrimoni privati della loro utilità e ridotti allo stato di immondizia, come accade con i residui della nostra quotidianità o delle nostre attività economiche. A queste reliquie i musei conferiscono una nuova sacralità e dignità. Si tratta di una sacralità non religiosa ma profana, legata non alle origini mitiche ma al passato e al futuro. Si compie un prodigio: oggetti ora privi di significato si fanno tracce del passato, mediatori tra lo stato di un mondo scomparso e la condizione del mondo in cui stiamo vivendo: o meglio, tra i nostri antenati e i loro posteri. Così facendo, i musei trasformano tesori privati in beni di tutti».

Il museo è anche una meravigliosa macchina del tempo. È, per riprendere un’immagine di Walter Benjamin, come una costellazione dove ciò-che-è-stato incontra ciò-che-è-adesso. Raccoglie opere provenienti da epoche lontane e, al tempo stesso, guarda verso l’avvenire. È, lei scrive, «solo in apparenza rivolto al passato: in realtà punta verso il futuro», per farsi specchio di «società futurocentriche». Ci parla del nesso museo-storia?

«Il museo è una raccolta di oggetti provenienti dal passato: a volte, da un passato remoto. Sono oggetti che devono essere mostrati nel presente e che vanno conservati per un futuro indefinitamente lontano. Si vuole rendere visibile ciò che è rimasto della storia. Eppure, le esigenze di conservazione non sono facilmente compatibili con le esigenze espositive. Ogni curatore di museo deve risolvere quello sempre lo stesso dilemma: conciliare passato, presente e futuro».

Il museo testimonia quello che Jacques Derrida chiamava il «mal d’archive». È un «male» che ha contagiato anche archivi, biblioteche e, successivamente, il web. Qual è la più grande differenza tra queste istituzioni?

«Il trionfo nel Medio Oriente antico e in Cina delle monarchie sacre comporta la nascita di tre tipi diversi di raccolte: documenti prodotti dalle cancellerie e conservati per il buon andamento degli affari (archivi); libri scritti da funzionari (biblioteche); e oggetti considerati doni degli dèi, che devono essere loro restituiti dopo la morte del sovrano (tesori). Archivi e biblioteche sono ancora con noi, anche se in forma modificata. Con un certo ritardo, gli archivi vengono oggi aperti agli studiosi. Le biblioteche non sono solo private, ma anche pubbliche. Invece, sono scomparsi i tesori: almeno nell’accezione che è stata data nei secoli, dall’antichità fino al tardo Medioevo. I tesori sono stati sostituiti dai musei. Archivi, biblioteche e musei sono istituzioni che collegano il passato al futuro attraverso l’agenzia del presente. Ma si occupano di varie tipologie di “semiofori”: di cose che rappresentano l’invisibile, dotate di precisi significati e simboli. Il primo custodisce documenti, il secondo conserva creazioni individuali, il terzo raduna materiali investiti di significato».

Oggi è in atto una sempre più diffusa museizzazione: si tende a musealizzare qualsiasi oggetto di uso quotidiano. Come spiega questa «museo-mania», che ha portato alla nascita di circa 85 mila musei nel mondo?

«Non userei il termine “museo-mania”. C’è stato un processo storico che ha avuto inizio alla fine del XV secolo. Ed è stato piuttosto lento. Nel tempo della Rivoluzione francese e in quello della prima rivoluzione industriale, questo processo ha avuto un’accelerazione. Dopo la Seconda guerra mondiale, con l’età dell’informazione, c’è stata un’ulteriore accelerazione. Noi chiamiamo “rivoluzione” un’interruzione violenta nel corso delle attività umane: si distruggono oggetti materiali ma anche costumi, abitudini e organizzazioni sociali. Si succedono tanti cambiamenti, che ci fanno oscillare tra la sensazione di perdita e il bisogno di preservare tracce di realtà perdute. Ecco: il museo è un’istituzione di una società che prende coscienza della propria storicità».

Nel Novecento il museo è stato spesso demonizzato dai protagonisti delle avanguardie. Eppure, futuristi e dadaisti lo hanno pensato come spazio in grado di legittimare gesti, situazioni, esperienze. Come spiega questa dialettica tra antimusealizzazione e musealizzazione?

«Gli artisti d’avanguardia hanno criticato violentemente i musei solo quando queste stesse istituzioni erano chiuse alle loro invenzioni. Poi, senza protestare, hanno accettato di esporre le loro opere nei musei da essi progettati».

Nei secoli, il Louvre, gli Uffizi o i Vaticani sono stati un approdo, una consacrazione. Oggi molti giovani artisti iniziano il loro percorso esponendo già, ad esempio, in un museo. Come giudica questa trasformazione?

«Mi sembra dannoso. Prima di trovare il proprio ultimo rifugio in un museo, le opere d’arte devono vivere tra la gente in contesti pubblici e privati, partecipare a eventi, essere investite di significati talvolta contraddittori. Meritano di entrare nei musei solo quelle opere che riescono a tenere in sé scie di storie, di leggende, di parole, di ricordi».

E ancora: come giudica la frequente mutazione dei musei in non-luoghi o luoghi di spettacolo, che non attribuiscono la necessaria importanza alla ricerca?

«L’obiettivo principale del museo è quello di preservare frammenti ricevuti da un passato lontano o vicino, proiettandosi verso un futuro indefinitamente remoto. Le collezioni di oggetti sono al centro delle preoccupazioni di ogni curatore. Questa vocazione è incompatibile con la pervasiva inclinazione all’intrattenimento, che ritroviamo nella pratica di tante mostre museali, basate sulla centralità della narrazione: nell’intrattenimento, al centro c’è lo spettatore che deve essere intrattenuto; mentre gli oggetti vengono sacrificati per raggiungere questo scopo. Si tratta di tentativi che rischiano di distruggere l’idea stessa di museo».

Infine, i musei dopo il Covid. Che rapporto prevede tra attività «in presenza» e attività digitali, tra offline e online?

«Certo, l’importanza delle attività digitali aumenterà. Ma la percezione degli oggetti originali non verrà mai sostituita dalle immagini di quegli stessi oggetti riprodotte sugli schermi di un computer o di uno smartphone. Il pubblico va al Louvre o agli Uffizi per vedere opere vere. Questa singolare esperienza resterà sempre insostituibile».

 

 

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