Un essere invisibile sta ribaltando la nostra percezione della realtà lasciandoci orfani del futuro. Dall’idea di confine o di piazza all’uso di parole come “virale” non siamo più gli stessi di cinquanta giorni fa
di Gabriele Romagnoli
Se vi dicessi che l’articolo che state leggendo diventerà virale la vostra reazione sarebbe molto diversa rispetto a cinquanta giorni fa. Allora vi sareste sentiti parte di un trend, un’inclinazione di massa a cui vi sareste piacevolmente abbandonati, oggi di un’epidemia da cui rifuggite. Le parole sono tra le prime, e tra le più significative, cose a cambiare verso, quando si verifica una cesura nella Storia. Perché accadesse qualcosa di simile ci saremmo aspettati un evento grandioso: un’invasione aliena, un guerra globale, una catastrofe ambientale. È bastato, all’apparenza, un “piccolo morbo antico”, un virus invisibile che richiama epoche e sensazioni remote, rese oscure dal passatismo che le connota, a cominciare dal fatto che, nell’epoca della smaterializzazione, si trasmette attraverso il contatto. Mentre i titolati a farlo ne cercano le cause, è già tempo di analizzare gli effetti.
Il primo è il colpo di scena nel libro delle nostre esistenze che stavamo leggendo. Nassim Nicholas Taleb sostiene che non è planato un cigno nero, niente di così imprevedibile, benché raro. Di certo non era una svolta attesa dal grande pubblico. Per la stragrande maggioranza la trama del mondo resta agganciata a un cliffhanger, un finale sospeso, di altro tipo. E di carattere positivo, potremmo dire. Non fosse che anche questo termine ha cambiato verso. Eravamo impegnati in altre battaglie e vedevamo la luce: si stava diffondendo la sensibilità sulle questioni ambientali e la maggior coscienza delle giovani generazioni faceva ben sperare. Si stava ricomponendo la classifica dei valori, si modificavano le piccole abitudini che determinano i grandi cambiamenti, a cominciare da quelle alimentari. Tutto questo è stato improvvisamente spazzato dal centro della tavola, rimasto vuoto. Vuoto come uno stadio per le prossime partite.
È cambiato un parametro fondamentale. Ci siamo finalmente accorti di vivere un’illusione ottica, generata da un’errata considerazione. Consideravamo motore della storia lo spazio. Abbiamo ritenuto massima espressione del progresso la corsa nello spazio per raggiungere la luna, sulla quale ci siamo peraltro fermati non sapendo più bene che farne se non celebrarla dopo qualche tempo (attenzione: tempo). Abbiamo accorciato le distanze. Reso tutto più vicino, non soltanto (drammaticamente, prima per l’economia poi per la nostra stessa salute) la Cina. Si sono scambiati costumi, cibi, desideri. Fuori dal gioco (ma per quanto?) sono rimaste parti del continente africano e isole remote, non ancora Zaraland. L’Asia mangia fast food e l’America premia l’immaginario coreano. La globalizzazione è unità di luogo. Il tempo, quello l’abbiamo dato per scontato: va avanti, o si ferma. Quando si è visto un orologio ingranare la retromarcia? Di qui la mai abbastanza rinnegata profezia sulla “fine della storia”. A cui si è obiettato: mannò, si va avanti, magnifici e progressivi. Oppure. I germi intellettuali d’inizio millennio avevano in realtà radici nel passato, giravano al contrario la freccia del tempo, titolo di un inconcepibile virtuosismo in forma di romanzo scritto da Martin Amis, la storia di un medico che “guarisce” dalla morte andando a ritroso verso la nascita. Pensate al fondamentalismo islamico, alla riproposizione del califfato, di uno stile di vita che abolisce la modernità (oltreché la bellezza). Pensate al ritorno dei nazionalismi, dell’isolazionismo, rietichettati come sovranismo. La nuova, mai così vecchia, politica. Anch’essa costretta a fare i conti con qualcosa di più datato ancora: il piccolo morbo antico.
D’improvviso la questione dei confini si è ribaltata. E il ribaltamento è uno dei più vetusti espedienti della comicità. Si voleva impedire agli altri di entrare, ora sono gli altri a dire: «Statevene a casa vostra», a non voler mettere piede nel giardino e impedire di visitare il loro cortile. Cinquanta giorni ed è apparsa la rivincita covata per oltre cinquant’anni, il cartello: «Non si affitta a settentrionali ». Ma nessuna parte politica è risparmiata dall’effetto ribaltamento. Il fenomeno delle sardine aveva appena riportato in auge la mobilitazione di massa, l’abbandono delle piazze virtuali per quelle reali, il ritorno sull’asfalto, al sudore condiviso, al mal di gola degli slogan, alla febbre da partecipazione, pigiati come i pesciolini in scatola. Va bene, magari però ci prendiamo una pausa di riflessione. Non è tempo.
Per capire come accelera il tempo nella sua retromarcia basta prendere un libro uscito a gennaio, insospettabile. Si intitola Happy Hour e l’ha scritto uno jedi dell’editoria italiana, Ferrucio Parazzoli. Immagina una Milano colpita da una misteriosa epidemia, che conduce al suicidio e per questo messa in quarantena. Si “ante- citano” Albert Camus e la sua Peste : «Che cosa abbiamo a che fare noi con i cittadini di Orano? », ma anche Georges Bataille secondo cui: «a ogni svolta, con una sorta di nausea, gli uomini scoprono la loro solitudine in una notte vuota». È questo che stiamo vivendo, una notte vuota. Notte perché non vediamo esattamente che cosa abbiamo davanti e vuota perché si eliminano situazioni che riempivano l’esistenza, forse fin troppo. Il troppopieno è il foro nei lavabi che impedisce la fuoriuscita d’acqua e il pericolo di allagamento. Un fattore di sicurezza, in definitiva. In una visione ottimistica forse questo sarà l’effetto finale del piccolo morbo antico. Non lo sappiamo ancora e nessuno può darci certezze. Nella sua casa di Brooklyn, all’indomani dell’attacco alle Torri Gemelle a cui aveva assistito dal terrazzo sul tetto, lo scrittore Paul Auster mi disse che sarebbero occorsi anni per capire gli effetti dell’accaduto e valutare se avrebbe determinato un cambiamento epocale o sarebbe stata soltanto una di quelle cose da cui ci si rialza e poi si prosegue senza guardarsi indietro ricordandola a volte nelle chiacchiere di una giornata oziosa. Succeduta a una notte vuota.