Perché guardiamo gli animali?
di John Berger
C’era una volta un uomo che, ogni giorno, aprendo la dispensa trovava il pane che vi aveva custodito rosicchiato dai topi. Deciso a liberarsi di questo inconveniente, sistemò una trappola per catturare i roditori lì dove essi consumavano il banchetto. La caccia ebbe esito fortunato e, mattina dopo mattina, un nuovo ospite si agitava all’interno della minuscola gabbia. Anzi che disfarsene in maniera cruenta, l’uomo prese a osservarli, a contemplare come essi reagivano in quella nuova situazione, chiusi nella loro piccola prigione e sotto lo sguardo umano, a valutare le differenze fisiche e di personalità che intercorrevano tra l’uno e l’altro. Non se ne sbarazzò con un colpo di scopa o con del veleno ma, al contrario, li liberò tutti, uno a uno, in un campo. Persino il modo in cui essi si relazionavano alla ritrovata libertà variava da esemplare a esemplare ed egli ne rimase colpito ed emozionato.
“Perché guardiamo gli animali?”, di John Berger, si apre con questa breve parabola che, da sola, basterebbe a giustificarne il titolo. Andando avanti con la lettura ci si accorge presto che il nome dell’opera è invece fuorviante: in essa converge una raccolta estremamente eterogenea di testi – brevi saggi, articoli, racconti e persino una poesia – scritti tra il 1971 e il 2001, che più che prendere in esame le analogie che legano uomo e animale (come il sottotitolo ribadisce: “Dodici inviti a riscoprire l’uomo attraverso le altre specie viventi”), ci parla delle conseguenze etiche ed estetiche della relazione tra l’essere umano e l’ambiente naturale.
Tale relazione è da una parte affrontata come attaccamento necessario di cui tutti siamo, che lo vogliamo o meno, partecipi (la nostra sopravvivenza, così come l’urgenza comunicativa e quindi la nascita del linguaggio e dell’arte dipendono dal legame con l’ambiente naturale e con le altre specie), dall’altra viene descritta come un rapporto travagliato e paradossale: con lo sviluppo industriale, con l’urbanizzazione sfrenata degli ultimi due secoli, l’uomo ha decostruito, fino a cancellarla del tutto, l’impronta della natura sulla propria quotidianità. Come effetto di questo processo l’ecosistema e le altre creature che con noi lo condividono sono divenuti oggetto idealizzato, guardato con nostalgia perché reso ormai irrimediabilmente distante. A una perdita del contatto diretto corrisponde un vuoto che viene colmato dalle speculazioni filosofiche, artistiche e scientifiche. Oppure dall’industria che fornisce dei surrogati che soddisfano una visone disneyana e fasulla del mondo naturale. Plasmate a umana misura, messe in gabbia e sotto vetro, le altre specie viventi divengono l’immagine sbiadita, messa in cornice da un presunto progresso, di quella natura che prima era a portata di mano e le cui stagioni influenzavano e si riflettevano, nel bene e nel male, sui destini umani.
John Berger è pittore, critico d’arte e scrittore poliedrico; la sua penna ha dato vita a romanzi, saggi critici, opere di carattere sociologico, poesie e soggetti per film. Non deve quindi sconcertare la varietà di temi e di stili che si susseguono nel tascabile uscito per Il Saggiatore: in un testo egli usa il comportamento dei primati al giardino zoologico di Basilea come spunto per analizzare la reazione dell’uomo davanti a un animale che così macroscopicamente e tragicamente gli somiglia e che pure gli appare enormemente distante. Sotto gli occhi del pubblico, le grandi scimmie vivono e, in mancanza degli stimoli necessari, si annoiano. Di più, fingono. Ed ecco che, in questo gioco di specchi distorti, nasce il teatro, in cui gli animali sono attori, nella strana, terribile interpretazione di loro stessi.
Altrove Berger parla dell’esperienza estetica, di cos’è e di come si mette in moto. Per farlo parte da un semplice manufatto: un uccello di legno, intagliato artigianalmente, che i contadini dell’Alta Savoia hanno l’abitudine di appendere nelle loro cucine. Dopo aver enumerato le caratteristiche che rendono l’oggetto in questione “bello” ai nostri occhi, egli entra nel vivo dell’esperienza, della sua fenomenologia:
“(…) In ogni caso, viviamo in un mondo di sofferenza in cui il male dilaga, un mondo le cui vicende non confermano il nostro Essere, un mondo al quale bisogna resistere. È in questa situazione che il momento estetico dà speranza. Il fatto che troviamo bello un cristallo o un papavero significa che siamo meno soli, che siamo più intimamente inseriti nell’esistenza di quanto il corso di una singola vita ci porterebbe a credere. (…) L’emozione estetica che proviamo di fronte a un oggetto creato dall’uomo – come per esempio l’uccello bianco da cui sono partito – è un derivato dell’emozione che proviamo di fronte alla natura. L’uccello bianco è un tentativo di tradurre un messaggio ricevuto da un uccello reale. Tutti i linguaggi dell’arte si sono sviluppati per tentare di trasformare l’istantaneo in permanente. L’arte presuppone che la bellezza non sia un’eccezione – che non sia a dispetto di – , ma sia la base di un ordine.”
Di nuovo, entra in gioco il nesso natura-uomo-cultura.
Altre pagine sono dedicate a episodi di vita contadina, argomento che ha animato molta parte della ricerca artistica e sociologica di quest’autore, e che qui ritorna in istantanee che fanno riferimento all’inestricabile rapporto tra uomo e animale; il tema viene riproposto anche nella lirica “Loro sono le ultime”.
L’epilogo è invece affidato all’emozionante e affettuoso ricordo delle ultime ore di vita di Ernst Fischer, delle parole da lui consegnategli in eredità, di quell’incolmabile vuoto lasciato per sempre nel rigoglioso giardino di un piccolo villaggio austriaco in cui il filosofo amava passeggiare.
Il breve saggio che regala il titolo dell’opera è incentrato sulla storia e sui risultati dell’interazione uomo-animale; essi vengono discussi dal punto di visto simbolico, sociologico, culturale e se ne traggono amare conclusioni:
“Gli animali stanno scomparendo ovunque. Negli zoo sono un monumento vivente alla loro stessa scomparsa. Così facendo, hanno provocato la loro ultima metafora.”
Scomparsa del regno animale significa, per Berger, scomparsa e marginalizzazione dell’unico ceto sociale che abbia mantenuto familiarità con esso e che sia quindi detentore della saggezza che da quel rapporto deriva: i piccoli e medi contadini. Ed è forse questo uno dei nuclei tematici più importanti che compaiono in “Perché guardiamo gli animali?”, un libro che, con lucidità esemplare e toni evocativi accompagna il lettore nei meandri di un’analisi vivace, fervida e particolarissima, che conduce a originali conclusioni sull’arte e sulla cultura come effetto dell’azione dell’uomo nel suo guardare ed essere guardato (e così riconoscersi nella propria indiscutibile alterità) dalla natura. Fruibile come un testo narrativo in qualità di uno stile limpido e scorrevole, il volumetto rappresenta un invito a conoscere più approfonditamente l’opera del Berger saggista e narratore, a riscoprirne l’interessante prospettiva sul mondo.