Leggo oggi, piuttosto in ritardo, un breve pezzo di Alfonso Berardinelli su Avvenire, risalente ormai a più d’un mese fa. A mia discolpa, posso forse dire che, almeno da un anno a questa parte, è divenuto ormai del tutto evidente il carattere “non-contemporaneo” del giornalismo italiano, in tutte le sue forme, e che quindi, se già prima restare costantemente aggiornato era uno sport tanto dispendioso nelle energie, quanto ripetitivo nella sua sostanza, data la totale interscambiabilità di un quotidiano con l’altro, a maggior ragione oggi, visto come la pandemia ha ulteriormente omologato la stampa alla narrazione emergenziale, la lettura dei quotidiani si rivela essere un esercizio non più solo faticoso, ma a tratti persino venato di masochismo, e comunque irrilevante nella sua pretesa d’essere attuale, quando non, addirittura, “quotidiano”. Ma di questo fenomeno, e cioè la scomparsa non solo dei fatti, ma anche della fattualità delle opinioni, dal dibattito pubblico, e la conseguente e, per certi versi, sorprendente inutilità di datare un pezzo giornalistico, vale forse la pena di parlare meglio e più dettagliatamente in un altro momento. Mi limito qui a suggerire, per quanto concerne l’intreccio suddetto di pandemia ed informazione, un pezzo dell’ottimo Luca Lenzini, dal titolo molto significativo di Media e pandemia. Continua il grande trucco (Altraparola, 13.5.20)
Su questo diciamo “qualunquismo” del giornalismo italiano non aggiungerei altro, per ora, dato anche che Berardinelli rappresenterebbe, a mio modo di vedere, una delle pochissime eccezioni a quanto descritto sopra. Infatti, a prescindere da quanto uno possa trovarsi concorde con quello che scrive, non ricordo d’avere mai letto qualcosa di suo che non mi facesse, nel peggiore dei casi, anche solo riflettere, quando invece non m’insegnasse più spesso qualcosa. Diciamo che l’articoletto sopra citato, ovvero Ma la Dad può servire a ripensare la scuola (Avvenire, 19.3.21) mi ha fatto riflettere. Per chi, come il sottoscritto fino a ieri, non lo avesse letto, il pezzo è facilmente reperibile in rete. Per quelli che invece, piuttosto legittimamente, non ne avessero voglia, il succo del discorso è presto detto: il Nostro comincia con una, in realtà piuttosto condivisibile, critica dell’atteggiamento eccessivamente paternalistico degli “adulti” nei confronti dei “giovani”, i quali adulti sarebbero più interessati a preservare immacolata la “giovanilità” dei secondi, invece che a permettere loro, anche attraverso le disgrazie («si dice che le sventure e le malattie aprano gli occhi sulla realtà della vita»), di “crescere”. Fin qui tutto bene, se non fosse che poi, quasi subito, l’atteggiamento giovanile viene stigmatizzato in un «frequente, abitudinario chiudere gli occhi» sugli avvenimenti del mondo reale, e al “paternalismo buono”, per così dire “iperprotettivo”, ne viene subito sostituito un altro “cattivo” e da “terapia d’urto”, quasi un “matrignalismo” nel senso della “natura matrigna” di Leopardi; del resto, «la spensieratezza e le distrazioni sono riposanti», chissà quali poi, «ma non possono essere il centro e il sale della vita». Da qui, l’invito a ripensare la “normalità scolastica”, l’apertura a forme di apprendimento “autodidatte”, l’invito a riflettere sul ruolo “culturalmente stimolante” del presente, il caveat finale: non «sottovalutare, ma neppure idealizzare la “scuola in presenza” come era prima», nella sua “cronica carenza di esperienze culturali autentiche, ovvero personali”.
Ora, per quanto il sottoscritto non voglia, e neppure volendo potrebbe, “idealizzare” la scuola in presenza per come la abbiamo sempre conosciuta, e specie negli ultimi decenni, non certo priva di criticità (ma sappiamo anche da quali tipologie di riforme “buonascuoliste” tali criticità non sono certo state alleggerite), tuttavia, pur condividendo l’impostazione generale del discorso di B., ci sono alcuni passaggi del Nostro che mi lasciano piuttosto perplesso. Questo a partire dal titolo che, anche se fosse redazionale, riassume perfettamente il tutto e mi spiazza non poco. La domanda che sorge spontanea è: ma era davvero necessaria la Dad per ripensare la scuola? Evidentemente no, visto che, negli ultimi decenni, è stata ripensata più e più volte, manipolata all’infinito, fino al risultato attuale che, forse, Berardinelli non ha ben presente, visto che il suo discorso, diciamo nello spirito più che nella lettera, sembra essere quello d’un tale che non mette piede in un liceo da parecchio tempo. Se vogliamo proprio dire le cose come stanno, le scuole già da tempo stanno letteralmente in piedi in autonomia, grazie a quella tensione “autodidatta” tanto invocata da B. relativamente a quelli tra gli studenti che ne hanno mezzi e volontà, ma anche, e soprattutto, grazie al contributo silenzioso di quegli insegnanti, molti o pochi che siano (sempre meno, se non si deciderà di sostenerli meglio), i quali, più per spirito di vocazione che per professionalità, spesso fanno la differenza tra una scuola fine a sé stessa, anonima e, appunto, spersonalizzata, e la possibilità della creazione, all’interno d’un macchinario che lo rende però sempre più difficile, d’uno spazio reale, partecipato e vivace, in cui non solo si può imparare, ma soprattutto ci si riesce a confrontare produttivamente.
Tutto quello che ci sta attorno è fuffa, scuola-azienda, digitalizzazione e vanità varie; ma è esattamente questo il prezzo della didattica a distanza, ovvero il predominio di queste ultime cose sulla sola che davvero conterebbe, e cioè la possibilità reale di entrare in relazione, tra persone, tra presenze concrete. Per quanto la conclusione raggiunta da B., e cioè che «se non c’è cultura nella vita quotidiana, non c’è scuola che riuscirà a far prendere sul serio l’insegnamento e l’apprendimento», abbia, senza dubbio, il merito di sottolineare l’importanza di lavorare per un’idea di cultura, diremmo à la Fortini, non separabile dal modo in cui gli uomini producono e riproducono la loro vita quotidianamente, in realtà, se s’inserisce quest’affermazione all’interno del contesto pedagogico che l’articolo trattava, si può forse dire che tale affermazione risulti quantomeno fuori luogo per il lettore, considerando che molto spesso è piuttosto vero il contrario, e cioè che è la scuola a sopperire quelle mancanze, anche culturali, che si palesano nella vita quotidiana, soprattutto di chi non gode precisamente di posizioni familiari particolarmente benestanti in società. Troppo spesso troviamo infatti, nell’articolo di B., uno slittamento tra il concetto d’istruzione e di educazione, che pure meriterebbero già una maggiore distinzione, e quello invece più generale di “cultura”, che innegabilmente è connesso ai primi due, ma contemporaneamente rischia, se così trattato, di schiacciarli sotto il peso di quello che B.chiama un «patrimonio culturale accumulato per secoli e millenni». Allo stesso modo è fuorviante, parlando di ripensare la scuola, rivolgersi in modo ambiguo ora genericamente ai giovani, ora a quello che sembrano gli studenti universitari, ora agli adolescenti, facendo, come direbbe il noto frequentatore di sale da biliardo David Hume, “un po’ di tutta l’erba un fascio”. In questo, ammetto di trovare l’empirismo di B. francamente fastidioso.
Non mi sembra il caso, in questo luogo, d’aprire una delle tante facile polemiche che, d’altro canto, già moltissime altre voci, anche più autorevoli della mia, hanno sollevato, e spesso comunque inutilmente, in merito alla didattica a distanza, quali le numerose difficoltà d’apprendimento insorte negli studenti d’ogni fascia d’età, quelle socio-relazionali, psicologiche, il fenomeno crescente della rinuncia agli studi, la totale assenza delle università dal dibattito, etc… Mi soffermerei solo a parlare un momento di quello che è il filo rosso che tiene insieme tutto questo, dalle elementari agli atenei, e cioè quello ch’è un vero e proprio processo di “precarizzazione” dell’istruzione; fenomeno che, del resto, era già stato ampiamente reso possibile, in potenza, dalla progressiva e sempre più invasiva digitalizzazione, e dal paradigma pedagogico neoliberale della “scuola-azienda”. Esattamente come in una azienda, dunque, dove esistono i contratti a chiamata, anche nelle scuole di ogni grado e tipo, nel presente pandemico, non si sa mai, fino al giorno prima, se la tua presenza sarà richiesta oppure no, in una pericolosissima analogia implicita tra i ritmi del mercato e quelli della vita. La cosiddetta didattica “mista”, infatti, è la quintessenza di questa logica precarizzante, avendo come unico effetto l’acutizzazione di quelle differenze e discriminazioni che già prima esistevano, ma ora esplodono in tutta la loro criticità. Basti pensare alle università, che riattivano la didattica in presenza al 50%, ma fanno pagare le tasse universitarie comunque al 100%, e la riattivano su prenotazione, fornendo un numero limitato di posti, quelli stessi posti che già erano insufficienti ad ospitare tutti gli studenti in tempi in cui si poteva ancora affollare le aule, e infatti le si affollava, arrivando anche da pendolari, fuori regione, per frequentare; tutte cose ora impossibili, eppure oltre il danno la beffa, perché, dice, in realtà la possibilità c’è, sei tu che non ti sei abbastanza “qualcosa” per coglierla.
Perciò, quando B. dice che «l’insolito è stimolante, è una sfida alle abitudini», a me viene da rispondere che l’insolito, o l’anormale, a me sembra in realtà essere piuttosto la solita minestra degli anni precedenti, riscaldata già, in tempo record, in una “nuova normalità” per nulla insolita. Sembra quasi di sentire l’eco di Monti, in quell’affermazione: il celebre leitmotiv della noia del posto fisso, che, persino a scuola, non ha più evidentemente senso d’esistere, nel nome della creatività. E perciò, quando ancora B. chiede se «non sarebbe questo il momento buono per fare esperimenti audaci con la nostra vita quotidiana?», davvero non riesco a pensare ad una risposta più creativa di “ancora?!”, probabilmente non essendo io sensibile come lui agli stimoli di questo nostro “insolito presente”. La cosa che ho maggiormente apprezzato del pezzo di B. è che, a differenza delle stragrande maggioranza, questi ha saputo impostare il problema dal punto di vista più corretto, a mio modesto modo di vedere, e cioè sul piano generazionale. Che la pandemia sia un fenomeno globale, infatti, è sotto gli occhi di tutti; naturalmente, non intendo dire per “globale” semplicemente che i suoi effetti si sono propagati per tutto il globo, in senso estensivo, ma soprattutto globale in senso intensivo, nel senso di “totale”. Ogni settore è stato contagiato e compromesso: oltre alla già citata informazione, si veda anche la politica, il diritto, la salute mentale, la crescente disparità economica, etc… Eppure, c’è forse un ambito che li comprende tutti, e cioè quello generazionale. Del resto, mi pare evidente che il vero nocciolo del problema sia, esattamente come dice il nome della testata per cui Berardinelli scrive, il problema dell’avvenire, e cioè il problema delle generazioni future. Devo dire che il fatto che il critico degli “stili dell’estremismo” sia ricaduto, almeno per questa volta, nel mito più banale tra i miti della sinistra, e cioè la retorica progressista di quelli che trasformano veri e propri conflitti sociali, spaccature generazionali (che pure vengono riconosciute come tali), in mere occasioni per la modernizzazione dei costumi (modello ’68, per intenderci), m’ha lasciato piuttosto perplesso, e m’ha portato, sfiduciato, ad interrogarmi sul futuro, in una di quelle domande che, come sempre, interessano solo a chi è giovane o a chi non ha più nulla da perdere, e cioè: ci sarà posto?