Annachiara Sacchi
«Su questo, potrebbe aprirsi un duello». È stato solo un passaggio. Un attimo di (compiaciuta) tensione. Avrebbe potuto essere davvero così? Forse. Ma la domanda che conta è un’altra: quanto può essere vero, intenso, stimolante un gioco? Semplice: dipende dai giocatori. Da quanto sanno dosare leggerezza e serietà nella messa in scena. Qui la regola del gioco filosofico fissata dalla «Lettura» è una sola: provate a dialogare — in modo filologicamente corretto, per quanto possibile — colmando il ponte del tempo. Caro Giuseppe Cambiano (professore emerito di Storia della filosofia antica alla Normale di Pisa), lei sarà Aristotele. Caro Silvano Petrosino (filosofo, professore di Teorie della comunicazione alla Cattolica di Milano), lei sarà Friedrich Nietzsche. Fate attenzione (non c’è neanche bisogno di dirlo): 2.300 anni vi separano. Oltre i millenni, vi divide la nascita di Cristo (non proprio un dettaglio). Di cose al mondo ne avete dette di sublimi. Ora, provate a dirvele tra voi. Vi daremo solo qualche cenno sui temi: uomo, Dio, male, amore, conoscenza, morte… temi che tornano a interrogarci oggi in modo drammatico. Sappiamo che non vi spaventerete, in questa seria commedia della filosofia che va in scena al tempo della tragedia del Covid-19.
Partiamo dalla definizione di uomo. E del suo posto nel mondo.
ARISTOTELE — Gli uomini, per natura, aspirano a conoscere. Da cosa lo deduco? Tutti desideriamo guardare le cose. Guardare è una prima forma di conoscenza. Su questa strada gli uomini si incamminano. Alcuni si fermano, altri vanno avanti. C’è chi si arresta alla constatazione delle cose, al fuoco che brucia. Però si può andare oltre, e chiedersi perché brucia. Lo stesso può avvenire contemplando gli astri o le figure geometriche. E qui si innesta un fenomeno che già il mio maestro Platone aveva individuato: la meraviglia. Si può dunque andare oltre e cercare quella che io chiamo causa. Questa ricerca è la posizione specifica dell’uomo nell’universo.
E dunque, in che posto lo colloca?
ARISTOTELE — Gli uomini condividono con altri esseri una serie di proprietà. Ma dispongono di funzioni intellettive che piante e altri animali non hanno.
NIETZSCHE — L’uomo ha una centralità. Il problema è vedere se ne è all’altezza: spesso viene meno, tradisce, non ha la forza. Il riferimento al vedere è importante. Ma il vedere non è un atto naturale; anzi, imparare a vedere è forse la propedeutica alla spiritualità. Se c’è una spiritualità dell’uomo, questa dipende dalla misura dello sguardo. E spesso la misura di questo sguardo è il risentimento. In questo senso la centralità dell’uomo, che dovrebbe essere l’estrema apertura al mondo, si trasforma in una difesa da esso, e quindi in un’offesa. Un uomo così io lo chiamo pecora malaticcia: dominato dal risentimento, tende ad agire secondo vendetta.
ARISTOTELE — Il mio però non è antropocentrismo, io non pongo l’uomo al centro dell’universo. Una sola volta ho avuto questa tentazione, quando in una trattazione sulla politica ho parlato del modo in cui ci si procura il cibo. Che poi la percezione visiva non sia garanzia di infallibilità è un dato di fatto. Non vediamo tutti allo stesso modo: il problema è confrontare le prospettive e determinare quella meno sbagliata.
Soluzione convincente?
NIETZSCHE — Se sono miope, o strabico, è chiaro che vedrò in modo distorto. In questo senso, come diceva il «collega», devo confrontarmi con gli altri. Ma a me sembra che la questione sia più sottile, e per spiegarmi riprendo un tema proprio di Aristotele, quando (nella Retorica) dice che coloro che amano e coloro che odiano percepiscono la stessa realtà in modo diverso. Questo è il punto: l’occhio del risentito, anche se non è malato, tende a percepire in ciò che vede un’offesa, qualcosa di cui vendicarsi. Dunque la passione interviene nella natura stessa della percezione. Per questo, come pensava Goethe e a differenza di Kant, non si deve separare la ragione dalla sensibilità, dal sentimento e dalla volontà. La passione non ha a che fare con il giudizio sulla realtà, ma con la percezione stessa della realtà.
ARISTOTELE — La mia prospettiva è un po’ diversa: ritengo che le prestazioni intellettuali subiscano sì condizionamenti di tipo etico, ma è necessario svincolarle da essi. È chiaro che la percezione sia legata a come gli uomini si comportano; e comportarsi nel mondo è un processo complicato. Non escludo dunque la possibilità che ci siano modi diversi di vedere il mondo, però come operazione intellettuale devo liberarmi da condizionamenti di tipo etico e cercare di perseguire il conoscere in modo disinteressato. C’è un obiettivo conoscitivo che ha una validità in sé. Mi si potrà accusare di ottimismo epistemologico, ma credo nella possibilità che l’uomo possa arrivare a conoscere l’universo senza farsi condizionare dall’odio e dall’amore.
NIETZSCHE — Mi permetto di insistere: la dimensione passionale interviene subito, prima del giudizio e nella percezione stessa della realtà. In questo senso l’idea di una posizione neutra, libera da ogni emotività, è una pura astrazione. Non esiste il non passionale. Ma su questo potrebbe aprirsi un duello.
ARISTOTELE — So benissimo che l’impresa conoscitiva non è del tutto a-passionale: quando parlo di desiderio di conoscere eredito quello che Platone chiamava eros, quindi resto fedele alla nozione di filosofia come amore per il sapere. Mosso da una passione che però è in grado di realizzarsi in una prospettiva convinta di poter conoscere il mondo.
Stabilito questo, la domanda successiva è: esiste un Dio? Chi è Dio?
ARISTOTELE — L’universo è eterno e non cambia. In esso distinguo due sfere: quella dei corpi celesti, che è perfetta, si muove con un moto circolare ed è fatta di etere. La Terra è al centro, ma è meno perfetta, è popolata da esseri soggetti a generazione e corruzione. Ciò mi permette di affrontare il tema della divinità. Un movimento può avere luogo solo se una causa lo avvia; questa causa motrice però a sua volta non può muoversi, perché se si muovesse dovrebbe essere mossa da qualcosa. Ebbene, io identifico la divinità con questo. E mi chiedo: che divinità è? Il mondo in cui vivo è popolato da dèi che hanno una vita quotidiana, rapporti sessuali, simpatie e antipatie, mentre il Dio che ho individuato non fa niente di tutto questo. E allora, cosa fa? Se l’attività più alta che l’uomo può svolgere è pensare, la divinità fa la stessa cosa in modo più perfetto. E a cosa pensa? Non a noi: non si preoccupa del mondo, lo fa muovere. Mi accuseranno di empietà per questo, ma non importa.
NIETZSCHE — Rispondo in due tempi. Primo: Dio è il sintomo di una debolezza dell’uomo, di un’incapacità di sostenere la vita. La pecora malaticcia, dominata dal risentimento, ha una propensione naturale verso Dio, ne ha bisogno, la sua è una contromossa psichica per sostenere l’angoscia del vivere. Ma io pongo un’altra questione: esiste qualcuno così capace di un sì, invece che di un no, da essere all’altezza di Dio? Quando parlo dell’Anticristo, mi riferisco a qualcuno all’altezza di Cristo. Cristo merita una tale opposizione. Non so se è chiaro.
ARISTOTELE — Non proprio… Soprattutto su Cristo.
NIETZSCHE — Dio non può essere un ripiego. Ci vuole un’idea di Dio all’altezza di quello che io chiamo Übermensch, superuomo, e che sarebbe meglio definire oltreuomo. Questo oltreuomo è per me l’uomo autentico. In questa direzione si inserisce il mio discorso su Dio: ci può essere un Dio all’altezza della forza dell’uomo.
ARISTOTELE — L’uomo non ha bisogno di Dio per vivere. Dio organizza l’ordine del mondo, ma l’uomo deve fare conto solo sulle sue forze. Ne ammetto l’esistenza, ma senza caratteristiche antropomorfe. Le credenze non mi toccano.
NIETZSCHE — Io vivo in una cultura cristiana. Il Dio biblico è il vivente, un Dio che non è di solo pensiero, interviene nella storia. In questo senso io, così attento alle passioni, vado a a scontrarmi con il Cristo che ha un corpo e agisce. Per me non c’è possibilità di un pensiero libero dalla passione e in tal senso Dio diventa il centro di questo pensiero. Un Dio capace di amore.
ARISTOTELE — Dio è come un filosofo che pensa a tempo pieno, non ha nemmeno bisogno di dormire.
NIETZSCHE — Sono d’accordo. Ma nell’evoluzione del pensiero io ritengo di aver fatto un passo in avanti, che consiste nel riconoscere all’interno della dimensione intellettiva la dimensione passionale. La passione è ciò che ingrandisce il pensiero, non lo ostacola.
ARISTOTELE — Forse Nietzsche ha una concezione più ampia della passione di quella che ho io.
NIETZSCHE — Io la chiamo volontà di potenza.
ARISTOTELE — Questo si connette al tema della tecnica, cioè il rapporto dell’uomo con la natura. La potenza dell’uomo non è onnipotenza, ma un modo di aggiungere qualcosa ai processi naturali e perfezionarli.
Chi o cosa crea il mondo?
ARISTOTELE — Nessuno. È sempre esistito.
NIETZSCHE — Non lo so ma mi piacerebbe molto saperlo. L’idea di creazione mi appassiona. È l’irruzione dell’assolutamente nuovo.
Che cosa pensate del male, della malattia, di nuovo così drammaticamente presenti in questo tempo compromesso dalla pandemia del coronavirus?
ARISTOTELE — Dobbiamo distinguere. Il male naturale, che riguarda processi come la malattia, la morte, le catastrofi, tipici del nostro mondo imperfetto, è inevitabile e non è la divinità che mi preserva da questo. Diverso è il discorso sul male morale, prodotto dagli uomini. Nessuno di noi nasce né buono né cattivo. Può diventare buono o cattivo, da qui l’importanza del processo educativo, che non è insegnare a comportarsi, ma fare in modo che con atteggiamenti ripetuti si acquisisca una forma di habitus che ci porti ad agire in un certo modo. Potrò diventare giusto se sarò abituato a compiere azioni giuste. Ma si può educare anche all’opposto. Il male allora diventa possibile. Dipende da noi.
NIETZSCHE — Mantengo anche io la distinzione tra male morale compiuto e male come sofferenza. Uno dei miei maestri, Schopenhauer, alla fine del Mondo come volontà e rappresentazione pone come ideale della vita il rinunciare alla volontà di potenza. Io mi oppongo, perché per me il sì alla vita deve essere così deciso da essere un sì perfino al dolore. Da questo punto di vista Schopenhauer è stato un debole, e il male compiuto per me è proprio questo: un uomo che rinuncia a sé stesso, che si rinchiude nella paura perché non riesce a fare di meglio. Il superuomo accetta la vita a tal punto da accogliere anche la sofferenza.
Che cosa c’è dopo la morte?
ARISTOTELE — Per Platone con la morte l’anima si separa dal corpo e continua a vivere. Per me, invece, l’anima è un insieme di funzioni che per essere esercitate richiedono un corpo: quando il corpo si dissolve, queste vengono meno. Qualche difficoltà mi potrebbe dare la funzione intellettuale. Ma quando pensiamo, su che base pensiamo? Su immagini elaborate durante la vita. Per pensare serve un supporto di materiale fornito dai sensi. Ma se il corpo perisce, questo materiale non mi viene più dato. Allora probabilmente l’intelletto non è immortale. E dopo la morte svanisce tutto.
NIETZSCHE — La domanda non è pertinente. Anzi può costituire una trappola. Io ho una visione gloriosa della vita, quindi il problema è la vita, non il dopo. Quando noi pensiamo al dopo, non possiamo che farlo a partire dal di qua della vita. Ma se l’al di qua della vita è quello del rinunciatario, non potrà che essere l’immagine capovolta del suo mondo. La pecora malata genera retromondi. Il problema vero è come si vive qui.
Che cosa ci facciamo noi qui, allora?
ARISTOTELE — Siamo consegnati a questa terra. Abbiamo alcune peculiarità, il punto è cercare di realizzarle al meglio, con una vita morale e politica adeguata, perché questa è una delle prerogative di noi animali con il logos, la ragione. Logos è anche il linguaggio in cui la ragione si manifesta, attraverso le parole riusciamo a formulare ciò che è utile e dannoso, ed è su questa base che dovremmo organizzare la nostra vita politica, il cui fine non è solo garantire la sopravvivenza fisica, ma consentire a ognuno di sviluppare a pieno le sue capacità. Quindi noi qui cosa ci stiamo a fare? A realizzare le nostre funzioni intrinseche, fisiche e mentali.
NIETZSCHE — L’uomo nobile e vero vive con fiducia e schiettezza davanti al mondo. Cosa ci stiamo a fare? A rendere testimonianza al sì della vita. A volte però il nostro sì nasconde un no e il no nasconde un sì. Gertrude dei Promessi sposi dice sempre sì che in realtà sono no.
Conosce «I promessi sposi»?
NIETZSCHE — Opera davvero magnifica. Comunque dicevo: l’uomo è chiamato a rendere testimonianza alla vita.
Chiamato da solo o con gli altri?
NIETZSCHE — Con gli altri, anche se talvolta la comunità diventa luogo di umiliazione e oppressione del singolo. Ma il grano e la zizzania crescono insieme. Il bene e il male continuano a intrecciarsi e ogni volta che l’uomo cerca di separarli genera una tragedia.
ARISTOTELE — La differenza tra l’uomo e gli altri animali è che non sta in comunità solo per garantirsi la sopravvivenza. Ovvio che anche questo è essenziale, ma l’obiettivo di una vera comunità politica è vivere bene, garantendo a ciascuno di realizzare sé stesso in base alle sue attitudini (e quindi al suo piacere), così da raggiungere quella che si chiama felicità. Parola pesante, lo so.
NIETZSCHE — Il pericolo sono le anime belle, gli pseudo innocenti, i buonisti. A questo livello la politica si corrompe. La politica, che è il luogo del vivere insieme per rendere testimonianza al sì alla vita, si trasforma nel luogo del no più radicale e menzognero nei confronti della vita.
E la felicità esiste, come dice Aristotele?
NIETZSCHE — Sì, sta nell’uomo che vive in modo schietto, con fiducia, e si apre al mondo. Questo è il massimo che si può avere dalla vita. Poi, di fatto, vivere con schiettezza e nobiltà d’animo è difficilissimo…
Altruismo e amore?
ARISTOTELE — Amore e amicizia non sono separabili. Amicizia è un rapporto amoroso che non è autentico se fondato sul piacere o sull’utilità (il primo è tipico dei giovani, il secondo dei vecchi). È invece vero e duraturo se ciascuno aspira al meglio per l’altro.
NIETZSCHE — La morale aristocratica è la morale del sì. In questo senso, noi siamo aperti a un’economia che ha bisogno di tutto e sa servirsi di tutto. Non c’è nemico. Il che non vuole dire che non ci siano ostacoli. L’amore… Un amore che implica una rinuncia o castrazione per me non è amore. In questo senso, la mia critica al cristianesimo è radicale, visto che pone l’ideale morale in una rinuncia di sé. Per me non è così: l’affermazione di me implica l’affermazione di tutti.
Una definizione di scienza, arte, etica.
ARISTOTELE — Scienza è quel tipo di conoscenza che consiste nel riconoscere le cause, il perché delle cose. Per fare questo, devo partire da una serie di premesse della cui verità riesco a rendermi conto attraverso processi complessi e trarne le conseguenze. Arte in greco è techne e questa include scultura, pittura, musica, ma anche qualunque procedimento fondato sul sapere che mi consenta di perseguire vari obiettivi, dalla produzione di oggetti (una casa, un dipinto), a una danza che dura il tempo dell’esibizione. Esistono quindi vari tipi di arte, che ha un legame diretto con la scienza, perché presuppone il saper fare. Etica: è un termine probabilmente coniato da me e vuole dire la disciplina che studia l’ethos, e cioè il carattere, la sua formazione. Lo studio del modo di agire degli uomini, per indicare il tipo di vita preferibile.
NIETZSCHE — La scienza si è un po’ modificata nel frattempo. Se per scienza si intende un sapere obiettivo, neutrale, freddo, scientifico, siamo in presenza di una menzogna, di una forma di delirio. Arte: per me è un modo di vivere, significa al di là dell’utile. L’uomo deve vivere così, senza farsi imprigionare dalla logica dell’utile o del profitto. Etica: spesso si è configurata come il luogo della castrazione, come disciplina che ha cercato di fare a meno delle passioni. Quindi ne do un giudizio negativo, quello che chiamo il castratismo. Il superuomo ha certamente un’etica: egli si comporta secondo il modo di vivere dell’artista e della non castrazione.
Ruolo delle donne?
ARISTOTELE — Sono un po’ misogino. Ad Atene, dove ho vissuto una ventina d’anni, la donna è relegata nella sua casa, dedita alla famiglia, che nel mio mondo è numerosa; la donna può distribuire mansioni e l’uomo può delegarle le cose di casa, perché lui vive per lo più fuori, nello spazio pubblico, dove esercita la sua funzione di cittadino.
NIETZSCHE — Ho scritto pagine durissime nei confronti della donna, perché in essa riconosco qualcosa di scomposto rispetto alla passione. Ma in Al di là del bene e del male ho detto più o meno così: posto che la verità è donna, si capisce perché i filosofi dogmatici non l’hanno mai trovata. Il riferimento è a un’idea di verità come qualcosa di vitale e mosso, precisamente ciò che il filosofo maschio dogmatico non riesce a cogliere. Se sono accusato di misoginia, in parte è giusto, ma al tempo stesso è una semplificazione, perché il mio discorso sulla donna è in verità molto più complesso.
Imparare dal passato è possibile?
ARISTOTELE — È essenziale tenere conto di quanto è stato detto da chi ci ha preceduto. In questo sono vicino a Tucidide, anche se io non apprezzo molto gli storici, perché si limitano a raccontare quello che è successo. Però se leggo la parte iniziale delle sue Storie, qui viene detto che il passato può insegnare perché ci sono cose che si ripetono nel mondo, e se io studio e conosco il passato posso analizzare meglio il presente.
NIETZSCHE — Il passato è importante, ma non dobbiamo rimanerne intrappolati. Né trasformarlo in una zavorra. Ho teorizzato la necessità di imparare a dimenticare, non bisogna avere la pretesa di possedere un archivio totale di quello che è successo. La memoria vera è sempre selettiva e sempre proiettata verso il futuro.