La Triennale di Milano dedica una retrospettiva al grande maestro francese delle immagini “ Il digitale? Per ora non lo uso, ma sono ancora un ragazzino”
di Maurizio Fiorino
Di sé, Raymond Depardon dice di appartenere a quel genere di fotografi nati col bianco e nero e che, col digitale, non hanno mai avuto niente a che fare. «Ma essendo un ragazzino, chissà, un domani potrei cominciare a usarlo» scherza.
Nato nel 1942, Depardon è uno dei registi e fotoreporter francesi più conosciuti al mondo. Nella sua lunga carriera ha immortalato tutto ciò che un fotografo dovrebbe fotografare: manicomi, deserti, città, periferie, strade piene di gente e luoghi erranti. Il suo ultimo lavoro in ordine di tempo riguarda proprio la “restanza”, ovvero il mondo di quelli che decidono di non lasciare il luogo in cui sono nati anche se è il luogo stesso, a volte, ad abbandonare loro. Per Depardon, nato e cresciuto in una fattoria, scattare foto in quel mondo è il modo di espiare il senso di colpa, racconta, per non aver mai immortalato i suoi genitori. La Triennale di Milano ha inaugurato la più grande retrospettiva mai realizzata sul suo lavoro (fino al 10 aprile 2022).
Più di trecento immagini e due film: si tratta di una monumentale mostra che gioca sui contrasti – grazie anche alle scenografie dell’artista Jean-Michel Alberola –, resa possibile grazie alla Fondation Cartier che, con Raymond Depardon, collabora da più di trent’anni. L’intero universo di Depardon è fatto di contrasti.
Bianco e nero e colore, volti e paesaggi, arcaico e moderno.
Monsieur Depardon, lei ha scoperto la macchina fotografica a 12 anni. A 16, ha lasciato la campagna e se n’è andato a vivere Parigi. Ha sempre voluto fare il fotografo?
«Ero così piccolo, non conoscevo neanche Henri Cartier-Bresson all’epoca. La fotografia, in quegli anni, mi ha dato solo frustrazioni. I miei amici uscivano con le loro fidanzate, io no. Non ero un ragazzo come tutti gli altri. A essere del tutto sincero, neanche so perché ho iniziato a fare il fotografo. Mi sono messo a fotografare, semplicemente. Ho cominciato così».
E dopo?
«Era l’agosto del ’60, mi chiesero di sostituire un fotografo per un viaggio in Africa. Avrei voluto telefonare ai miei genitori per avvisarli, ma la mia famiglia, a quei tempi, non aveva neanche un telefono. Così sono partito e basta».
È in Africa che ha scoperto di essere diventato un vero fotografo?
«In quel momento, più che altro, ho capito che non potevo più tornare indietro. La fattoria di famiglia era destinata a mio fratello. O diventavo un fotografo di successo, o non so cos’altro avrei potuto inventarmi. Dovevo fare delle belle fotografie per poter vivere, ecco.
Ma a essere sincero, il momento in cui ho capito che direzione stava prendendo la mia carriera, è stato un altro».
Ce lo racconti.
«Mi trovavo nel Ciad, era il ’77, dei terroristi avevano preso in ostaggio una donna da 33 mesi. Mi fu dato l’ingrato compito di creare una prova di vita per il governo francese. In poche parole, dovevo documentare le condizioni della donna. All’epoca i terroristi non avevano fotocamere e io dovevo per forza scattare quella foto. Fu traumatico. Per diciassette anni avevo solo fatto foto per giornali e in quel momento mi sono reso conto che potevo fare un’altra foto».
La sua mostra a Milano comincia proprio da questo punto. Che cos’è un’altra foto? «È una foto che ha un senso: se non la facevo, la donna sarebbe stata ammazzata. È stata un’esperienza cosi scioccante che la mia idea di artista, all’improvviso, è radicalmente cambiata. È come se avessi smesso di fare il fotoreporter per diventare altro. Potevo dire chi ero, con le mie foto. Potevo farle per me, più che per la stampa, e quindi potevo essere fragile, scoprire le mie paure, reagire».
Oggi sono gli stessi terroristi a girare e diffondere i video degli ostaggi. Sono diventati anche loro dei fotoreporter?
«I fotoreporter sono una necessità.
Certo, non occorre più che vengano spediti in Africa dove ci sono i fotografi locali. Questo è il grande vantaggio del digitale: la fine dell’etnocentrismo, del predominio occidentale. Ogni fotografia scattata ha un senso e una ragione».
A tal proposito, ci parli di uno dei suoi lavori più celebri esposti a Milano, quello su Glasgow. È vero che le sue foto furono considerate talmente crude che il “Sunday Times”decise di non pubblicarle?
«In pratica ero a Beirut. Un giornalista inglese che conosceva il mio lavoro mi chiese di andare in Scozia a scattare qualcosa di simile a quello che avevo fatto in Libano.
Accettai ma, una volta lì, non riuscii a fare quello per cui ero stato chiamato. Venivo dal deserto, dove passavo ore sotto una palma ad aspettare che accadesse qualcosa.
Glasgow, in confronto, mi sembrò esotica. Camminavo tantissimo per trovare spunti e forse il successo di quelle foto sta proprio nei chilometri che ho percorso. A lavoro concluso, però, le fotografie sono rimaste chiuse in un cassetto per un bel po’».
Quanto è importante, per un fotografo, saper attendere?
«Nel ’60 ero al festival di Cannes. In programma c’erano sia La dolce vita che L’avventura. Fu la pellicola di Antonioni a colpirmi, anche se fu fischiata. È un film sull’attesa e penso che la fotografia sia proprio come quel film: piena di momenti impercettibili. Sono i tempi morti della vita. L’attesa, della foto, è la quintessenza».
Il suo lavoro sui manicomi italiani, che conclude la mostra, è un pugno al cuore. Lei ha conosciuto Franco Basaglia a Trieste nel ’77, un anno prima della legge 180.
«Non sapevo granché di psichiatria. Basaglia mi portò in una stanza del manicomio e mi chiuse la porta alle spalle. Mi trovai da solo, senza infermieri, con gente che aveva una pazzia cronica e uomini in gabbia. Feci tante foto e, dopo tre giorni, Basaglia volle parlarmi. Temevo fosse arrabbiato, a dire il vero. Invece mi invitò a pranzo e, dopo aver chiacchierato del più e del meno, mi disse: “non sentirti in colpa. Devi fare queste foto, altrimenti un giorno diranno che tutto questo non è mai esistito.
Io e te non siamo responsabili di quello che hai visto: i responsabili sono gli ospedali psichiatrici che rendono le persone così”. In quegli anni, in effetti, c’erano i primi revisionisti di Auschwitz».
Non ha avuto paura di fotografare i manicomi italiani?
«Dovevo mostrare, era quello il senso delle foto. Avevo paura, ovvio. Io ho sempre avuto paura, anche a Glasgow. Anche oggi, in metropolitana, quando fotografo di nascosto. A volte le mani mi diventano umide, dalla paura. E se adesso tutte queste immagini sono in mostra, è perché la paura ha saputo attraversare il tempo. Certo, sono immagini violente, ma il fotografo che documenta la violenza non è partecipe, è il testimone. La fotografia ha due tempi: quello di scattare la foto giusta e quello di riflettere se quella fotografia si può pubblicare o meno».
Ha qualche rimpianto, da fotografo?
«Anni fa ero in un commissariato di Timbuctu con mia moglie. Dietro le sbarre c’era un bambino imprigionato. Ricordo ancora i suoi occhi, mi colpirono molto. Avrei potuto fare una foto di nascosto, magari tossendo per dissimulare il rumore dell’otturatore, ma non lo feci. E mi dispiace».
Pensa davvero alle foto che non ha scattato?
«Siamo tutti ossessionati dalle foto. Col telefonino, ancora di più. È quasi una schizofrenia: i selfie, le foto con gli amici, tutte queste immagini salvate. Salomone diceva che le figure erano come un talismano e che bisognava conservarle. All’epoca le persone facevano dei piccoli disegni delle persone amate che venivano arrotolati e portati sempre dietro.
Come oggi, che portiamo nei portafogli le foto dei figli».
Da Salomone ai social network, l’essere umano ha sempre lo stesso bisogno di immagini, quindi?
«È che noi umani viviamo sempre con dei dubbi, perciò cerchiamo rassicurazioni. Una foto da portarci dietro, in fondo, ci rassicura. Siamo un po’ folli con le immagini che scattiamo, ma è un riflesso umano.
Questa è l’unica filosofia alta che posso trarre dal momento che stiamo vivendo. La foto è aprirsi verso l’altro. È un talismano, per l’appunto».