A leggerla diversamente, l’esplosiva e sulfurea missiva a firma Agamben–Cacciari su cui i fucilieri della stampa e i lanzichenecchi della televisione hanno sparato le loro salve conterrebbe ancora qualche speranza, un larvato ottimismo, una visione del futuro tutto sommato positiva. Essa risiederebbe nella constatazione che, sebbene messi alle corde, discriminati e di “serie B”, nel nostro Paese vi siano ancora dei cittadini; persone, cioè, alle quali si possa tributare un minimo di dignità e di rispetto.
Tuttavia bisogna dire che la categoria del civis che là viene richiamata e della quale essi vedono tuttora qualche timida manifestazione di vitalità, si riflette pur sempre nell’appartenenza a una più ampia aggregazione di individui che si costituisce come popolo. Ed è qui, purtroppo, che le aspettative dei due filosofi rischiano di sbiadirsi, di perdere forza e di tramutarsi in chimere se di questo popolo non si riscopre il senso e non si ricompone il tessuto.
Forse in molti non saranno d’accordo, ma come già qualche tempo fa facemmo notare, il popolo, scarnificato fino all’osso da distanziamenti sociali e mortificazioni economiche causate dall’emergenza sanitaria, si è parzialmente atomizzato, dissolto in quell’informe pulviscolo di individui che la parusia vaccinale ha infine ordinatamente messo in fila davanti alle sacre stazioni sierologiche dell’autorità preposta alla salute pubblica.Quegli stessi individui, assoggettati al rigore geometrico della fila, addomesticati al suo passo lento e resi potenzialmente immuni al virus grazie al vaccino, ora se ne sbattono di essere cittadini o di costituirsi come popolo. L’unica cosa che ora li preoccupa è conservare a lungo quell’immunità conquistata, difenderla con i denti e, semmai, esibirla orgogliosamente come un’onorificenza, come quelle che il generale incaricato alla sanificazione di massa mette in mostra sulla sua divisa. Questo è ciò che ha sviluppato la fila in ulteriori termini di disagio, di indifferenza, di smembramento del tessuto sociale e avvilimento del sentimento popolare.
Come forsennati, nei consessi della quotidianità, questi stessi individui chiedono a chiunque credenziali di salubrità che spesso ricambiano con la diffidenza, con il sospetto, mai con solidarietà di popolo e coscienza collettiva. La fila che hanno tracciato seguendosi silenziosamente uno a uno ha scavato un solco tra sé e gli altri, quegli altri che adesso sono percepiti come dissenzienti, coloro che derogano, che prendono tempo e si mettono a lato.
In questi giorni si parla accanitamente del decreto che istituisce il cosiddetto Green Pass – il passaporto vaccinale – come di uno strumento normativo di discriminazione. Ed è stata soprattutto questa, la discriminazione o la deriva totalitaria in nuce al provvedimento, che ha scatenato la reazione di Agamben e Cacciari. Così il loro intervento è stato prima ridicolizzato, messo alla berlina, bollato di complottismo, e infine analizzato frase per frase con il viziato metodo di un’ermeneutica posticcia. I concetti da loro espressi sono stati definiti inqualificabili, faziosi e deliranti, come pronunciati da due vecchi pazzi, due avanzi di manicomio.
Ebbene, a nostro avviso è proprio in questo loro “delirio” che si intravede invece la possibilità del riscatto e della ricomposizione orgogliosa di un popolo, quello che spontaneamente si ricompatta e manifesta disordinatamente nelle strade e si accalca pacifico nelle piazze. È vero, le manifestazioni contro il Green Pass, come le dichiarazioni dei due filosofi, sono deliranti, ma soltanto nell’accezione del de-lirare lontana dal patologico, ossia dell’uscire fuori dai margini, dell’andare oltre, al di là del lineare solco tracciato (lira) dalla fila. Un popolo non sfila né marcia ordinatamente come gli eserciti, non si mette in fila, ma si presenta così com’è, inerme e delirante contro l’ordine autoritario di provvedimenti che avverte come insostenibili e ingiustificati. Un popolo manifesta sempre per un’idea che reputa superiore alla individuale singolarità. Perciò deve delirare, sempre e con maggiore insistenza. Perché dopotutto non si delira mai soltanto per sé stessi e il delirio, come diceva Deleuze a proposito del desiderio, “concerne il mondo intero”.