Nel gennaio del 1954 appare sui «Cahiers du Cinéma» un articolo destinato a fare rumore nell’ambiente ovattato e polveroso del cinema francese del Dopoguerra. L’ha scritto con stile già inconfondibile il giovane critico François Truffaut che con quella rivista collabora solo da qualche mese. Appena ventiduenne Truffaut non esita a scagliarsi contro la “tradizione della qualità francese”, incarnata da registi ai suoi occhi mummificati in una avvilente routine, incapaci di esprimere una propria idea del mondo e del cinema.
Il testo ha avuto una lunga gestazione e l’approvazione di André Bazin, nondimeno il tono è sferzante, a tratti sarcastico, sicuramente irriverente anche se il pensiero è sorretto da una scrittura chiara e da un’assunzione di responsabilità inusuali per l’età. Quanto basta perché Truffaut venga invitato a collaborare, dapprima come praticante e poi come giornalista, dal settimanale «Arts-Spectacles». Dal febbraio del ’54 alla fine del ’58 il futuro regista scriverà quattrocentosessanta testi tra critiche, articoli, reportages e interviste. Nel 1975 lo stesso Truffaut, oramai celebrato cineasta, ne selezionò, in un’ottica ben più pacificata, una piccola parte e aggiungendone dei più recenti, pubblicò I film della mia vita che anche in Italia è stato uno dei libri di cinema più letti. L’editore Gallimard, per la cura allo studioso Bernard Bastide, ne ristampa oggi la quasi totalità espungendo solo le interviste – che, almeno nel caso di Hitchcock, fu arte truffaultiana eccelsa. Un libro di più di cinquecento pagine di critica cinematografica potrebbe intimorire anche il lettore più motivato; accade invece il contrario: la vis polemica mordace, l’affabulazione letteraria, la spregiudicatezza usata in ugual misura per attaccare e per esaltare e la passione di fondo essenziale per chi, come Truffaut, intendeva fare il diavolo a quattro (ossia le 400 coups) nella cultura cinematografica nazionale, garantiscono il lettore da ogni forma di noia. Letto d’un fiato il volume svela la natura segreta concepita da Truffaut, quella un giornale di bordo che tiene conto dei fatti ma anche degli umori di chi scrive: pagina dopo pagina si dipana la vicenda culturale di un quinquennio e si rivela quella intima di un adulto che conserva l’anima ribelle di chi, adolescente, solo raramente «marinava il cinema per bighellonare nelle aule di scuola».
Se per il mensile «Cahiers» le critiche di Truffaut sottintendevano teorie o preparavano il terreno a rivoluzioni estetiche, per il settimanale «Arts» (sessantamila copie) erano occasioni di divulgazione dove l’estro giornalistico si manifestava senza complessi. Truffaut ebbe campo libero e se il prezzo fu l’essere odiato da mezza Parigi lo pagò volentieri. La rivista gli concede spazio e assoluta libertà: soprattutto al direttore Jacques Laurent i partiti presi di Truffaut non dispiacciono perché scevri da ogni dettame ideologico. Le critiche ai singoli film sono il naturale punto di partenza per lo stagista, specie per i primi mesi in cui la firma è ancora anonima. Sebbene l’esercizio gli appaia riduttivo, quasi sempre le recensioni iniziano con una trama succinta (le sue sintesi sono di un’abilità rara) per poi, come nota Bastide, individuare un elemento narrativo, tecnico o estetico che emerge, che marca l’opera, e che permette a Truffaut di far rivivere al lettore l’intero film. Sulla base di questo metodo Truffaut riesce a rendere naturale l’esaltazione dei film di Renoir, Ophüls, Bresson e necessaria la stroncatura di Autan-Lara, Clouzot e Delannoy. I primi sono attivi rispetto a una personale consapevolezza del cinema i secondi no. Capovolgere il giudizio corrente è un imperativo. Giù Buñuel surrealista e sugli scudi quello messicano di El «dove il genio su manifesta proprio nel superamento dell’ ostacolo commerciale»; «La valle dell’Eden è il miglior film di un cattivo regista»; «se Hollywood fosse un presidio militare Lang sarebbe il generale, Mann il colonnello, Aldrich il luogotenente, Walsh il sergente e Ford sarebbe solo un aiutante di campo». La scoperta del nuovo ha i toni dell’immediata esaltazione, la stroncatura del già noto s’avvale piuttosto dell’arguzia ma in entrambi i casi la parola segna un solco che è difficile colmare.
Lo spirito è spesso giacobino: «se si dovrà combattere, combatteremo». Nelle inchieste, pubblicate spesso nell’arco di più settimane si rivelano senza pietà errori di colleghi; si fustigano i sindacati; si classificano infine gli autori secondo la categoria (essenziale per Truffaut) dell’ambizione: se Renoir capeggia i più ambiziosi, L’Herbier figura nell’ultima , quella dei commerciali senza scrupoli. Avanzando nella lettura si capisce che Truffaut non è un critico, almeno nell’accezione corrente. D’altronde chi prende in mano il volume non lo fa per scoprire la strenua difesa dell’opera di Ophüls o la passione ardente per i film di Hitchcock, già note. Il fatto è che la sua scrittura è mirabilmente ibrida, sospesa tra il giornalismo inconciliante e l’esercizio letterario. Truffaut è e vuole essere un narratore («ogni regista è un romanziere») lo si capisce bene nelle cronache dai festival, redatte giornalmente con l’idea di render conto al lettore sì dei film, ma anche delle conferenze, delle bizze degli attori, degli scontri e persino, elegantemente, dei pettegolezzi che li animano. Se per la Mostra di Venezia ha qualche riguardo, i fendenti contro Cannes sono senza cautela. La Croisette è un non-luogo del cinema dove dominano gli intrighi, le mode e i compromessi, dove i verdetti delle giurie sono sempre ridicoli. D’altronde Truffaut parte da un assioma: «i critici credono che i festival li riguardi. È un equivoco da dissipare immediatamente».
CHRONIQUES D’ARTS SPECTACLES 1954 -1958
François Truffaut
a cura di Bernard Bastide
Gallimard, Parigi, pagg. 525, € 24
Andrea Martini