Maraini, dieci anni di festival, a che cosa si deve tanta longevità?
«Ha attecchito bene perché gli abitanti di Arona lo hanno sempre accolto con affetto. A cominciare dal primo cittadino, leghista, uomo di cultura, che ci ha protetti. Atmosfera complice e tanti ragazzi delle scuole pronti a impegnarsi con noi su base volontaria. Imparano e poi entrano nell’organizzazione. Io lo faccio volentieri perché amo il teatro e la cultura che è di per sé pacifica. Chi crede nei libri crede nella parola, nella comprensione e nel dialogo che cerca affinità».
Lei ha scritto diversi testi che riguardano l’acqua?
«Nel corso degli anni, sì. E’ suggestivo di notte e dalla terra ferma guardare gruppi di barche adattate a palcoscenico sulle quali si recita. Quest’anno ho riscritto “Un tagliatore di teste sul Lago Maggiore”. La fiaba racconta di un vecchio boia che sul Lago riflette sul suo passato in compagnia immaginaria di coloro che ha decapitato».
L’acqua, soprattutto di lago, normalmente ispira il thriller.
«Io penso al lago come fonte di memoria. Dal Lago passò Bakunin prima di andare in Svizzera, si ritrova la storia dei Borromeo, di San Carlo. Vedo l’acqua viva, suggeritrice di antiche suggestioni».Suggestioni tutt’altro che noir.
«Infatti mi sono ispirata al Teatro No giapponese che si basa sui rapporti tra vivi e morti e i morti sono presenze benigne che aiutano i vivi. Il Giappone ha un legame con chi non c’è più molto poetico, un vecchio animismo che torna in ogni cosa. Chi ha un buon rapporto con i morti ha un buon rapporto con la memoria».
La sua memoria si divide principalmente tra Giappone e Sicilia?
«Ho vissuto otto anni in Giappone e otto, quelli della formazione tra i 10 e i 18, in Sicilia. Da lì ho studiato il 700 per La lunga vita di Marianna Ucrìa e sempre da lì sono capitata sulla peste di Messina del 1743. E ne ho scritto un racconto nel 2006. In piena pandemia l’ho ripreso e l’ho riscritto fino a farlo diventare un romanzo».
Si tratta di “Trio” ?
«Parla del legame tra due donne che si sono scelte da bambine, della loro amicizia forsennata nonostante ci sia di mezzo un uomo, sposato da una e desiderato dall’altra, nonostante la peste che le tiene lontane, nonostante le convenzioni, le gelosie, le passioni. Coltiveranno il loro rapporto lo stesso, in punta di penna».
Ancora un racconto di donne. Perché?
«Perché sono donna e parlo di donne, come gli uomini scrivono di uomini. Sono rarissime le protagoniste femminili di grandi autori, le ha amate Ibsen, Goldoni, pochi altri. Ma è giusto così, attiene al bisogno di identificarsi. Io non credo nelle differenze biologiche ma di storie si. Storie di esclusione, storie di potere».
Ancora oggi?
«Viviamo in un periodo curioso, il femminismo ha cambiato il mondo ma ora assistiamo a una frantumazione di idee. Manca il pensare un futuro condiviso. Per questo la politica è diventata solo lotta per il potere. Mancano le ideologie ed è molto triste. La pandemia ci ha portato a interrogarci su parecchie questioni. Segnali ce ne sono, guardiamo Greta Thunberg, tanto popolare tra i ragazzi. Parla di ambiente, della difesa della specie, della natura. L’inquinamento, nell’interesse dei giovani di oggi, ha preso il posto della lotta di classe. Comunque manca qualcosa di più strutturato che li faccia scendere in piazza per cambiare il mondo».
Sta scrivendo un nuovo romanzo?
«Per due anni ho vissuto in un campo di concentramento in Giappone. Sto cercando di scriverne ma una parte di me si rifiuta. Troppo dolore».
Che tipo di scrittrice è Dacia Maraini? Aspetta l’ispirazione, scrive comunque tutti i giorni, oppure?
«Sono molto disciplinata. Scrivo tutti i giorni, scrivo e riscrivo, è una pratica. Credo che l’ispirazione sia solo un fatto romantico. È scrivendo che arrivano le idee. Così me ne occupo a tempo pieno. Il linguaggio e vivo e in continuo movimento, un combattimento senza fine, ossessionati dai luoghi comuni e dalle convenzioni: fino a che punto puoi essere trasgressivo senza diventare incomprensibile?».
L’Italia è un paese che scrive moltissimo e che legge pochissimo.
«Pubblicano 65.000 libri l’anno, la metà va al macero e nessuno legge più. Una schizofrenia, come se si volesse scrivere musica senza conoscere Bach o Monteverdi. Viviamo immersi in una cultura del consumo basato sulla quantità e non sulla qualità. Purtroppo ci è andato di mezzo anche il libro».