Crudo, feroce, limpido. Flavio Cuniberto, classe 1956, insegna Estetica a Perugia, ha pubblicato libri di erudita bellezza (Paesaggi del Regno, per Neri Pozza; Il vortice estetico, per Morlacchi; Il cedro e la palma, per Medusa, ad esempio), ha tradotto, tra gli altri, Ernst Jünger e Walter Benjamin. Non lo vedete in tivù, a seminare opinioni su ciò che non si conosce. Piuttosto, Cuniberto pensa. Il suo ultimo pamphlet, L’onda anomala (Medusa, 2021), ha un sottotitolo che può insospettire, “Cronaca filosofica della pandemia”, si legge in mezza giornata e ha il pregio, sorretto da una prosa vitrea, ‘taoista’, concreta, in un’ottantina di pagine, come il gesto di un samurai, di squarciare la disinformazione pandemica nata intorno alla pandemia, un antro di imposture. Il punto di partenza è esplicitato, in verità, verso la fine del libro:
“Ostinarsi a vedere nella pandemia solo un vasto problema sanitario e politico-sanitario, relegando tra le ipotesi fantasiose il colossale esperimento ingegneristico-sociale e social-tecnologico a cui la pandemia offre l’occasione storia, è pura cecità: è una rinuncia al pensiero, una débâcle del pensiero”.
Il resto è la lenta sutura di pensieri di buon senso, costruiti osservando, alieni all’ansia, dove l’ira si torce in pensare. Allineo alcune considerazioni.
Sull’enfatizzazione della crisi:
“Lo sfruttamento dell’epidemia come ‘finestra di opportunità’ ha indotto a enfatizzare la crisi, sia amplificando o drammatizzando i dati statistici della malattia – già di per sé allarmanti – sia militarizzandola, cioè adottando, sul piano politico mediatico, un linguaggio e modalità di comunicazione tipiche dello stato di guerra, allo scopo di rendere più credibili e cogenti le drastiche misure di contenimento”.
Sulla diffusione capillare del digitale:
“Nello spazio di pochi mesi la pandemia ha creato in tutte le società occidentali le condizioni ideali per attuare su vasta scala, e coattivamente, una sperimentazione senza precedenti degli spazi didattici virtuali. Cioè di quello che, in termini di ingegneria sociale, possiamo definire il Panopticon Virtuale”.
Sul Covid come rito, rituale, come nuova Chiesa:
“Le dispute sulla natura del Covid-19 richiamano – su un registro drammaticamente profano – le dispute cristologiche dei primi secoli. Da una parte la Grande Chiesa, l’Ortodossia, con la sua versione ufficiale, funzionari e gerarchie, dall’altra il variegato mondo delle sette (‘eresie’) – il cosiddetto ‘complottismo’ – respinte dalla Grande Chiesa come estremismi irrazionali e nocivi”.
Sulla clausura imposta come metodo per far denaro:
“La normalizzazione delle abitudini contratte durante il ‘confinamento’ è una scommessa su cui puntano tutti i settori tecnologici avanzati”.
Cuniberto suggerisce che la pandemia è sfruttata come Grande Reset: il mondo non tornerà più ‘come prima’, l’accelerazione imposta al nostro modo di vivere, di pensare, è già un fatto. Affascina – per sovrapposizione di tenebra – osservare che l’esperimento ‘sociale’ accada su masse diversamente inerti, piene – e certe – del proprio ‘privato’, dei propri desideri, infine esangui, anodine, artatamente soddisfatte. “Non era mai accaduto, nella lunga storia delle epidemie-pandemie, che l’intero ‘consorzio umano’ – la quasi totalità dei paesi che compongono l’ecumene – reagisse al diffondersi dell’epidemia una forma così corale e in sostanza omogenea”. Fate il vostro gioco, i vostri conti.
Riguardo al Covid lei ne scrive come di una “crisi costruita” e di un “mito fondativo”: cosa significa?
Il saggio intende appunto chiarire in che senso la crisi pandemica è una crisi «costruita». «Costruita» non significa affatto «inventata» (che è la tesi «negazionista» in senso stretto, proposta almeno agli inizi anche da Giorgio Agamben). Significa che il Covid è una vasta epidemia influenzale, con un andamento classico dall’Estremo Oriente all’Occidente. Nello stesso tempo, la comunicazione mediatica e la gestione politico-sanitaria dell’epidemia la hanno di fatto trasformata (e in questo senso «costruita»), assegnandole un ruolo catastrofico-epocale evidente fin dalle prime dichiarazioni («la crisi più grave dalla II Guerra Mondiale» ecc.). Sia il lessico militare adottato fin dalle prime settimane, che il paragone enfatico con la Seconda guerra mondiale sono indizi di una crisi che era, in realtà, attesa da tempo. Questo è un punto capitale per comprendere l’«amplificazione» politico-mediatica della crisi (con le ipotesi ci si può anche spingere a quella estrema, della pandemia «provocata»; che però, per quanto plausibile, non è dimostrabile, e non è nemmeno necessaria per comprendere quella che chiamo la sua «costruzione»). Alla «costruzione» politico-mediatica della crisi (cioè alla natura della sua comunicazione e delle misure sanitarie) hanno contribuito in una misura decisiva gli scenari previsionali, suggeriti o direttamente confezionati dai Servizi di intelligence, allo scopo di predisporre in tutti i paesi, specie del mondo occidentale, un clima di «guerra». Dal confronto con paesi non-militarizzati come la Svezia, risulta chiaro che le misure restrittive suggerite dai Servizi (e dagli Istituti di Sanità) hanno vistosamente amplificato la gravità dell’epidemia. Una seconda, vistosa amplificazione, riguarda i criteri di conteggio dei decessi, che solo in parte sono attribuibili al Covid. Non è tuttora chiaro in quale misura l’aumento della mortalità nel 2020 sia dovuto al Covid come tale e in quale misura sia dovuto a patologie trascurate a causa del Covid. C’è poi un terzo elemento: il numero altissimo di pazienti affetti da patologie pregresse su cui il Covid ha avuto l’effetto del «colpo di grazia». Ma l’allarme diffuso per oltre un anno da tutti i media ha messo in assoluta evidenza il numero dei «contagi», di per sé ben poco significativo, vista la scarsissima letalità della malattia in età giovanile (mentre l’età media dei decessi si è attestata sugli 81 anni, che è l’attesa media di vita nei paesi più «evoluti»). Spero di avere chiarito in che senso parlo di una pandemia reale ma «costruita» (di una pandemia-fenomeno che ha avvolto fin dall’inizio l’insondabile pandemia-noumeno).
Che cosa intende quando parla di “Grande Reset”?
Parlare di una pandemia «costruita» sarebbe ancora vago e irritante se la mostruosa accelerazione delle attività telematiche nel corso del 2020 (una vera «abbuffata» telematica, monopolizzata dalle solite mega-aziende del settore), non suggerisse che la «costruzione» della pandemia (nei termini visti sopra: una pandemia reale, ma costruita mediaticamente come catastrofe globale), l’enfasi sul «distanziamento connesso» ecc., è servita a creare le condizioni ottimali per un riassetto rivoluzionario delle società soprattutto occidentali, fondato su un utilizzo moltiplicato delle tecnologie informatiche. Nel marzo 2020 il Segretario generale dell’ONU «salutava» il Covid come la grande occasione per informatizzare anche le società più riluttanti. Non risulta che i media – e gli infiniti dibattiti televisivi – abbiano dato a spazio alla formidabile ammissione di António Guterres (troppo tempestiva e troppo «positiva» nei toni per non tradire un’attesa trepidante da parte del comparto tecnologico-industriale ora più lanciato nelle quotazioni di Borsa: la cosiddetta new economy). Parlando sopra di «riassetto» ho anticipato la risposta sul Great Reset. In effetti, il mio saggio era già in stampa quando ho letto l’omonimo saggio di Klaus Schwab e Thierry Malleret (nella versione inglese, l’unica attualmente disponibile). Il lungo testo illustra con dovizia di particolari un vasto progetto di riassetto economico-sociale fondato essenzialmente sulle nuove tecnologie informatiche e propiziato dalla pandemia. Va da sé che Schwab e Malleret non parlano di una pandemia «costruita» ad arte: ne illustrano quelle che, dal loro punto di vista, sarebbero le meravigliose e inevitabili «ricadute». Il dato saliente è che Mr. Schwab non è un pensionato svizzero dedito ai romanzi di fiction: come organizzatore del Forum annuale di Davos è uno dei personaggi più informati in assoluto su quel che si agita nella «pancia» del mondo tecnologico e finanziario. Può sembrare strano, se mai, che un progetto di ingegneria sociale così audace sia stato reso pubblico. La spiegazione probabile è che la «cupola» di poteri industriali, tecnologici, finanziari, coinvolta in questa operazione di riassetto (una vera «guerra» della new economy contro la old economy) sia così sicura della propria «agenda» da venire tranquillamente allo scoperto. Come succede, del resto, con i governi «tecnici» a cui abbiamo fatto il callo (da Monti a Draghi). È la sfacciataggine della forza, che, ritenendosi imbattibile, non ha bisogno di nascondersi. Che la cosiddetta democrazia sia una copertura funzionale di interessi fortemente elitari, è ormai il segreto di Pulcinella.
Nel pamphlet osserva “il tempismo preveggente con cui il sistema scolastico-universitario si è dotato degli strumenti informatici necessari per l’emergenza”. In termini assoluti, il dominio informatico è l’atto terminale che ci allontana dal corpo, dalla carne, dal toccare, dallo ‘sperimentare’: è così? E cosa comporta?
La domanda è molto impegnativa sul piano filosofico, perché chiama in causa l’impatto antropologico delle nuove tecnologie. Mi limiterei a dire – sulla scia delle analisi svolte a suo tempo nel mio Vortice Estetico (Morlacchi 2015) – che l’accelerazione della Rete, con l’effetto di «risucchio» rispetto al «concreto» (dallo spettacolo alla scuola al lavoro in ufficio) porterà a una «spettralizzazione» dell’esistente, già preparata peraltro dai nuovi media novecenteschi (il cinema, la stessa radio, soprattutto la TV).
La cosiddetta ‘rivoluzione tecnologica’ si è amplificata enormemente in era Covid (gli spazi di comunità, cinema, teatri, sono sostituiti da quelli mediati, per dire): lei scrive, ad esempio, della “presunta indispensabilità del cellulare-smartphone come strumento di lavoro”. Dunque, cosa dovremmo fare, cosa potremmo fare per non esserne schiavi? Intendo, cosa può il libero pensatore rispetto al ‘sistema’?
Questa domanda è più che impegnativa. I nuovi media impongono pesanti catene da cui è quasi impossibile svincolarsi (sono catene mentali). Un esempio banale è la frammentazione caotica del pensiero a cui va incontro la «comunicazione» sui social. Se spegnere i nuovi media non sarà possibile, si dovrà ricorrere a circuiti paralleli e alternativi, una sorta di «samizdat» cartaceo ancora da inventare. In caso contrario, le nuove tecnologie prenderanno il sopravvento in forme simili a quelle previste da filosofi come Günther Anders o Emanuele Severino. È essenziale in ogni caso che rimangano delle «oasi», sottratte alla deriva generale.
Al contempo, lei parla della fine del rito (“Non è più un rito il pranzo o la cena; non è più un rito la lezione scolastica o universitaria”) e del Covid come sistema ‘teologico’. Mi spieghi.
Le due cose sono strettamente connesse. La fine dei riti (il mondo fluidificato di cui la Rete è il volano) comporta elementi parodici: un proliferare di finti riti parodici, di cui il Covid fornisce brillanti esempi. Quanto al carattere di «mito fondativo», rientra in questo scenario la parodia religiosa. Tutti i miti fondativi sono cruenti, comportano un momento sacrificale. In questo senso, il Covid-19 con le sue numerose vittime (non molto più numerose, probabilmente, dell’influenza «asiatica» del 1956-1957) può svolgere un ruolo fondativo rispetto al nuovo ordine telematico. Salvo che non è un mito religioso, ma un mito parodico.
L’epoca pandemica ha cambiato – lo chiedo al prof di estetica – i criteri di cosa è bello, e dunque di cosa è bene. Mi sbaglio, è una cretinata? E se sì, in quale modo?
Che l’era pandemica abbia cambiato i criteri del «bello» e del «bene», non lo so. Forse, parlando di «trascendentali» filosofici, di meta-categorie, quella che vedo più minacciata dalla pandemia è la categoria del «vero» (e del «falso»). Ho l’impressione che la storia degli ultimi decenni abbia visto crescere il potere della finzione, della simulazione: generando una maggiore docilità collettiva al «regime del falso». E dire che i totalitarismi novecenteschi non scherzavano, in materia di propaganda. E il Falso, l’Impostura come strumento politico, sono vecchi come il mondo. Ma appunto, la mia impressione è quella di un ulteriore «giro di vite», in cui ha non poco peso il contrarsi della memoria collettiva (indotto dai muovi media, e così torniamo al punto di partenza). Siamo sempre più amnesici. E su un soggetto amnesico il Falso ha una presa maggiore.
Le chiedo, a questo punto, una breve profezia: cosa ci attende?
L’ultima domanda mi costringerebbe al pessimismo. L’esperimento di «ingegneria sociale» di cui parlo nel libro potrebbe anche fallire: ma al suo eventualmente fallimento seguirebbe solo un più rapido «avvitamento» della crisi internazionale. Lo scontro con la Cina sarà inevitabile. E qui sospendo il giudizio, perché lo scontro potrebbe richiamare le due bestie apocalittiche, Leviathan e Behemot, e non ci sarebbe in questo caso né la possibilità né tantomeno il dovere di schierarsi. L’essenziale è che i «semi spirituali» (quelli che l’amnesia tenta di calpestare e distruggere) vengano custoditi, da qualche parte, nel silenzio. Prima o poi fioriranno, come il «cedro» e la «palma» del Salmo 92.