Così Pound creò Joyce
Il poeta americano, prima della folgorazione fascista, fu grande amico e sostenitore dell’autore dell’Ulisse ancora povero e sconosciuto Come dimostrano non solo le sue lettere ma anche gli articoli
di Michele Mari
Non ci vuol molto a immaginare lo scetticismo con cui James Joyce, pochissimo conosciuto e già oppresso da numerose avversità economiche e di salute, rispose con una poesia alla richiesta di Ezra Pound, che nel dicembre del 1913 gli aveva scritto nella veste di collaboratore di «un paio di riviste giovani e squattrinate » . Quel contatto, invece, gli avrebbe cambiato la vita, perché Pound rimase talmente colpito dal talento di Joyce che per quasi un decennio gli fece da ” agente”, segnalandolo, raccomandandolo, incoraggiandolo a scrivere, pubblicandolo o facendolo pubblicare, recensendolo… Subito dopo la poesia, sollecitato, Joyce spedì il dattiloscritto di Gente di Dublino e un capitolo del Ritratto dell’artista da giovane, che entusiasmarono Pound per l’esattezza dello stile e l’economia di una scrittura « dura, netta, senza spreco di parole, frasi inutili legate assieme, niente sbobba a riempire le pagine». «Il lavoro di Joyce » , scrisse a Llewelyn Roberts nel 1915, «è rimasto del tutto incontaminato. Ha vissuto dieci anni nell’oscurità e nella povertà, e così ha potuto perfezionare la sua scrittura senza farsi influenzare dalle esigenze e dai parametri del mercato». Nulla di strano, dunque, se il mondo dell’editoria non rispondeva; saputo del rifiuto dell’editore Duckworth di pubblicare il Ritratto in seguito al parere sfavorevole di un consulente, Pound tuona: «Questi parassiti strisciano sulla nostra letteratura e la insozzano con le loro bavose lagne e solo il giorno del giudizio, credo, potrà sterminarli » . Peraltro non scampano alla sua furia nemmeno scrittori illustri come Walter Delamare, colpevole di aver ricevuto una pensione di Stato, o come H.G. Wells, secondo il quale quella di Joyce sarebbe stata una poetica della fogna: «Wells dice che Joyce ha un’ossessione cloacale: ma non c’è niente nella vita di così tanto bello che Joyce non possa toccare senza profanarlo […] e non c’è niente di così tanto sordido che lui non possa trattare con la sua metallica esattezza » . Che Pound avesse sviluppato un atteggiamento protettivo nei confronti di Joyce risulta anche dal sostegno finanziario e dalle premure mediche: quando Joyce dovette farsi operare agli occhi fu Pound a consultare i chirurghi e anzi a prescrivere in proprio, con una certa megalomania, il tipo di intervento. Dopodiché abbiamo una serie di lettere e di articoli senza i quali probabilmente l’Ulisse non sarebbe stato portato a termine e in ogni caso non sarebbe stato pubblicato: nel 1922 ( anno in cui uscì anche la Terra desolata di Eliot) Pound ne salutò l’edizione quasi come una vittoria personale, e non è un caso che proprio allora decidesse di aprire i Cantos, pubblicati a partire dal 1925, con la figura di Odisseo. « In questo super- romanzo » , scrisse recendendo l’Ulisse, «il nostro autore ha anche attinto all’epica, e ha fatto risorgere, per la prima volta dal 1321, figure infernali; le sue non sono furie da operetta; con un semplice rovesciamento, ha riportato nella realtà le furie, le sue flagellanti signore del Castello » ; libro- sonata, proliferazione di pronunce, epica riscritta da Rabelais e da Sterne, l’Ulisse è il libro « che mi piacerebbe scrivere se fossi un prosatore » ammette Pound; peccato che le risposte di Joyce siano andate quasi tutte perdute. Siamo al culmine dell’idillio: di qui a poco Pound, trasferitosi a Rapallo, si avvicinerà progressivamente al fascismo, accogliendo con crescente imbarazzo i capitoli di Finnegans Wake (per molti anni intitolato semplicemente Work in progress). Definito da Simon Carnell «il più formidabile libro antifascista scritto fra le due guerre», il Finnegans spiacque a Pound anche per motivi formali: a suo avviso il flusso di coscienza era « fluito abbastanza » e dunque stava incominciando a stancare, e soprattutto lo scrittore dublinese sembrava aver perso la propria profondità di sguardo: «Da troppo tempo la mente di Joyce è stata privata della vista di Joyce […]. Se n’è stato seduto nel solco dei propri pensieri, borbottando cose tra sé e sé, ascoltando la sua voce al fonografo e pensando al suono, suono, borbottio, mormorio » . Così nel 1934: l’anno dopo, quando l’Italia invase l’Etiopia, Joyce scrisse alla nuora chiedendosi perché i fascisti non nominassero Pound « comandante in capo dei Bagonghi » . L’allontanamento politico e letterario era irreversibile: ciò non tolse che il discorso pronunciato da Pound per la morte di Joyce ( 1941) fosse improntato a grande stima e amicizia. I due si erano incontrati di persona solo poche volte, la prima dopo sette anni di carteggio, e l’ultima, a Parigi, insieme a Hemingway, cui Joyce aveva chiesto di essere presente perché, gli confidò, ormai Pound gli faceva paura.
Quando gli scritti joyciani di Pound vennero pubblicati da Forrest Read era il 1967, vale a dire che Pound era ancora in vita; oggi vedono la luce in Italia nella traduzione di Antonio Bibbò, attento a restituire il camaleontismo joyciano dell’autore, e con una prefazione di Enrico Terrinoni, uno dei traduttori dell’Ulisse e dell’intraducibile Finnegans Wake, libro, scrisse Pound, che poteva essere uscito solo dalla testa di un ubriaco.