Così il risultato del voto sull’isola può riaprire la grande partita tra i dem.

 

IL PUNTO
Gli ottimisti camminano sul filo del rasoio. Una delusione potrebbe provocare un terremoto negli assetti di potere
QUAL è la soglia sotto la quale il risultato della Sicilia può aprire una crisi grave nel Pd? Gli ottimisti, vicini al segretario Renzi, negano di fatto che questa soglia esista. Negano quindi che lunedì mattina i dati di siciliani siano tali da produrre contraccolpi a Roma.
In fondo, ecco il loro argomento, la percentuale del Pd anche nell’Assemblea appena sciolta era modesta e inoltre la campagna in corso risente di circostanze particolarmente sfavorevoli a causa del bilancio negativo della giunta Crocetta. C’è del vero. Il Pd raccolse nel 2012 il 13,4 per cento, a cui si aggiunse il 6,2 circa della lista personale del candidato presidente. Una spinta significativa venne dai centristi dell’Udc che ottennero quasi l’11 per cento. In totale il centrosinistra andò al governo della regione con il 30,5. Di cui poco meno del 20 era da attribuire al Pd più la lista Crocetta. Questo sembra il dato da tener presente lunedì, quando si valuteranno i risultati. Micari, il candidato del centrosinistra è sostenuto, oltre che dal Pd, dal sindaco di Palermo Leoluca Orlando. Inoltre lo appoggiano i centristi di Alfano che però appaiono assai più deboli di quanto fosse l’Udc di cinque anni fa. Se la somma delle varie sigle fosse inferiore al 20 per cento, rispetto al 30,5 del 2012, s’imporrebbe una riflessione. Vorrebbe dire che la discesa del Pd unita all’insuccesso centrista si è risolta in un collasso. Dentro tale cornice andrà analizzato anche il risultato del Pd, in apparenza irrobustito dal sostegno di Orlando. Al di sotto del 10-11 per cento il segnale d’allarme suonerebbe non solo a Palermo, ma al di là dello Stretto. Per la semplice ragione che cinque anni fa alla percentuale del Pd (13,4 come detto) andava aggiunto il 6 per cento di Crocetta. E inoltre Micari è stato, sì, proposto dal sindaco di Palermo, ma rappresenta un ponte verso il “renzismo”. In altri termini, l’onda siciliana rischia di travolgere i vecchi equilibri ben oltre le attese. Il ritorno del centrodestra nella versione bicefala Berlusconi-Salvini; il fatto che il candidato presidente sia lo stesso Musumeci del 2012, ma stavolta con prospettive di vittoria, segno che lo spostamento a destra è servito; l’irrompere dei Cinque Stelle con tutte le loro contraddizioni: ce n’è abbastanza per capire che le elezioni in Sicilia non sono un evento circoscritto e in qualche modo confinato alla dimensione insulare. Tanto più che bisogna considerare anche la lista di Claudio Fava, sinistra radicale: la sua percentuale sarà un altro termometro utile a misurare lo stato di salute del Pd.
GLI ottimisti insomma camminano sul filo del rasoio. Lunedì prossimo è necessario che i dati da Palermo non siano esplosivi, se si vuole ottenere che a Roma, in via del Nazareno, nulla cambi. Altrimenti potrebbero crearsi le condizioni di un certo smottamento negli assetti di potere. Si capisce perché. Il disegno di Renzi è intuibile: non vuole grane interne e sopratutto non desidera che qualcuno gli metta i bastoni fra le ruote quando – fra breve si decideranno le candidature nazionali. È plausibile che egli voglia tenere per sé una larga maggioranza dei gruppi parlamentari, eleggendo persone a lui fedeli e concedendo il giusto, ma senza punte di generosità, ai notabili, da Franceschini a Orlando.
Sulla carta questo percorso non dovrebbe essere interrotto dalla delusione siciliana, peraltro attesa. Ma è appunto una questione da verificare nel concreto a partire da lunedì. Una disfatta oltre misura potrebbe creare il panico sul piano nazionale fra i quadri e i militanti. In fondo Renzi conosce solo la marcia avanti, puntando su se stesso in ogni circostanza. E tale caratteristica, accettata finché i vantaggi superano gli svantaggi, potrebbe all’improvviso apparire autolesionista. Finora i nomi storici del Pd, a cominciare da Veltroni, hanno criticato il segretario ma lo hanno lasciato fare. Dopo la Sicilia potrebbero decidere che è giunto il momento di cambiare tattica e di chiedere al leader il fatidico passo indietro. Il senatore Mucchetti, un indipendente certo non amico di Renzi ma libero da vincoli correntizi, ha già buttato il sasso nello stagno. Non c’è che attendere. Tutto dipende dal voto in Sicilia.
La Repubblica
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