Così abbiamo smarrito l’intimità ovvero fenomenologia del selfie.

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di Aldo Cazzullo

«Se negli ultimi trent’anni la malattia da curare era la depressione, per i prossimi venti sarà il narcisismo, che di per sé non è una malattia, non è una patologia e, fino ad oggi, non ha portato a particolari drammi. Ma se non metteremo a fuoco quello che sta accadendo nell’era della rivoluzione digitale, diventerà una patologia invalidante, un’isteria moderna, capace di compromettere rapporti sociali, lavoro e sentimenti». Roberto Cotroneo arriva a questa conclusione alla fine di un saggio pieno di cose tranne la spocchia. L’autore non odia la modernità, non osserva i suoi contemporanei con cipiglio, ma racconta le deformazioni e i pericoli dei new media e dei social network (cui dedica una rubrica settimanale su «Sette» del «Corriere») con la stessa libertà intellettuale con cui da giovane critico letterario dell’«Espresso» stroncava gli scrittori ripiegati sul proprio ego.
Lo sguardo rovesciato. Come la fotografia sta cambiando le nostre vite (Utet) è il racconto di una rivoluzione tecnologica che ha creato un’ossessione pubblica: il selfie. All’inizio fu la prima macchina fotografica, che Cotroneo come tutti i bambini della sua generazione ebbe in regalo dal padre: una Kodak automatica, con il rullino e l’obiettivo con due opzioni, nuvoloso o sole. La fotografia era già una cosa importante, ma non incrociava la vita come ora. L’autore fa notare che — di un episodio centrale della storia italiana del Dopoguerra, il rapimento di Aldo Moro e l’assassinio della sua scorta (16 marzo 1978)— esistono soltanto le fotografie scattate pochi secondi dopo la strage dall’unico residente che avesse con sé una macchina fotografica, in un quartiere non turistico della Capitale, e con una buona ragione per averla: era un carrozziere, doveva fotografare una portiera ammaccata. «Oggi avremmo foto su foto, e probabilmente più verità e più chiarezza riguardo quello che accadde». Lo stesso vale per i tornanti della storia moderna, a cominciare dall’assassinio di Kennedy: per anni l’unico filmato fu quello del sarto Abraham Zapruder, che aveva con sé una cinepresa super 8; «oggi davanti a un evento così drammatico avremmo migliaia di foto e molti video».
Questo fenomeno porta verità e trasparenza. Ma porta anche alla fine dell’intimità. «Non ci sono più luoghi inaccessibili, non ci sono più spazi non consentiti». E «nessuno più ritrae quello che vede, ma mostra se stesso, le immagini dei propri spazi, delle persone care, degli oggetti che gli appartengono». Il selfie, fa notare giustamente Cotroneo, è cosa ben diversa dall’autoscatto. L’autoscatto era una foto che la macchina faceva da sola: «Non ti vedi mentre lei scatta, non puoi cambiare espressione, non metti il tuo corpo in diretta decidendo come muoverlo, non puoi valutare quali saranno il tuo sorriso e il tuo sguardo. Tutto questo il selfie lo può fare. Ti specchi, e trasformi quell’immagine riflessa in una fotografia».
Si vive con lo specchio in mano; e i social network moltiplicano la nostra immagine riflessa all’infinito. Ognuno si sente al centro dell’universo e pensa di mettere la propria vita in comune con quella degli altri; ma rischia di diventare un narciso innamorato della propria immagine riflessa, sino a consumarsi di inerzia, di inedia, di alienazione dalla vita, quella vera.
L’età dei selfie ha capovolto la teoria di Roland Barthes: «Ciò che la fotografia riproduce all’infinito ha avuto luogo una sola volta: essa ripete meccanicamente ciò che non potrà mai più ripetersi esistenzialmente (…). È il Particolare assoluto, la Contingenza sovrana, spenta e come ottusa, il Tale, in breve la Tyche , l’Occasione, l’Incontro, il Reale nella sua espressione infaticabile». Ma da quando il selfie è diventato un’ossessione siamo a un capovolgimento, nota Cotroneo: «La fotografia non è più la testimonianza di quanto avvenuto una sola volta ma è la registrazione di quanto avviene di continuo. Non ferma nulla, ma insegue una realtà, una vita che non è occasione, incontro o Tyche , destino. E il paradosso è un altro: è quello che sta fuori dalla cornice della fotografia a diventare importante». Lo scopo del selfie non è mostrarsi più belli di quel che si è, è «darsi un’anima perduta», «attraverso l’immagine esprimere desideri, possibilità, futuri solo sognati. C’è la speranza di diventare, per l’infinito istante dell’immagine, quello che si è sempre desiderato essere. Pubblicare sui siti e sui social le proprie foto è come dire a tutti: qui sono quello che vorrei essere davvero; questo è il mio ritratto». Un narcisismo collettivo che alla lunga sottrae identità, e nasconde se stessi.