Cosa chiede la Costituzione

di Michele Ainis
No, non ci serve un salvatore della Patria. Ci serve un presidente: di una Repubblica parlamentare, non d’un impero coloniale. Eppure queste settimane che ancora ci separano dal voto a Camere riunite sono cariche d’attese, di parole trepidanti, di annunciazioni del Messia prossimo venturo. Si direbbe che lo Stato italiano stia per offrirsi, senza riserve né difese, al suo nuovo padrone; e nel frattempo la vita politica è sospesa, i partiti si concentrano su questa scelta suprema, i parlamentari temono il pollice verso del futuro imperatore sulle sorti della legislatura.
Insomma, dal prossimo capo dello Stato dipenderà — parrebbe — il destino stesso dello Stato.
Ma che poteri inalbera il nostro presidente? A leggere la Carta costituzionale, quelle nove scarne disposizioni che ne regolano elezione e competenze, il bilancio non è affatto florido. Lui (lei) non assume decisioni di governo, non scrive leggi, non timbra sentenze. Rimane al di fuori dei tre poteri dello Stato, pur vigilando sul loro svolgimento. Sicché l’autentico potere del capo dello Stato è di favorire l’esercizio dei poteri altrui, riaccendendo il motore quando la macchina s’inceppa. Da qui lo scioglimento anticipato delle assemblee parlamentari, così come dei Consigli regionali o del Csm, se si verifica una crisi irresolubile, una grave illegittimità, uno stallo. Ma da qui, inoltre, l’assenza di funzioni d’indirizzo politico, che viceversa spettano al tandem governo-Parlamento. In breve: il presidente della Repubblica è un po’ come un meccanico, ma non è affatto il pilota delle nostre istituzioni.
Poi, certo, la Costituzione si può leggere in varia guisa. Paolo Barile, per esempio, ne offriva un’interpretazione “presidenzialista”, suggerendo di prendere sul serio il comando delle Forze armate, al pari delle altre attribuzioni del capo dello Stato. E si può aggiungere che il perimetro costituzionale della presidenza dipende dai presidenti, da chi volta per volta incarna quella carica. Giocano qui, difatti, gli accident of personality, come dicono gli inglesi; giacché ciascuno vi deposita la sua cultura, il suo temperamento.
Per dirne una, l’irruenza di Sandro Pertini era lontana un miglio dallo stile compassato di Luigi Einaudi. E gioca inoltre l’elasticità delle norme costituzionali, che permette loro d’adattarsi alle diverse stagioni della storia, al contesto politico e sociale nel quale opera ogni presidente.
Insomma, la nostra Carta è duttile, come l’argilla. Però ha un’anima di ferro. Nessuna prassi, nessuna interpretazione estensiva o evolutiva può determinare un cambio di regime. È il caso del «semipresidenzialismo di fatto» evocato da Giorgetti, qualora venisse eletto Draghi. Ma è il caso, altresì, delle fantasie sulla presidenza a tempo, sulle staffette fra Mattarella o Berlusconi o chissà chi, in attesa di cedere il bastone del comando a Draghi, all’avvio della prossima legislatura. Chiacchiere in libertà, che sfidano la Costituzione nel suo punto di rottura. Sia perché l’orologio delle istituzioni reclama il massimo rispetto. Sia perché il patto della staffetta ha cattivi precedenti (quello tra Craxi e De Mita, durante gli anni Ottanta, non venne rispettato). Sia perché offende l’autorità del nuovo presidente.
Sennonché la sua autorità costituzionale non si lascia convertire in autoritarismo, in dominio su tutte le altre istituzioni. Sarebbe una ferita per la democrazia, giacché quest’ultima — diceva Kelsen, sulle orme di Platone — è assenza di capi. Ma sarebbe forse un’insidia per lo stesso interessato. Sta di fatto che noi italiani abbiamo il vizio d’affidarci all’uomo della provvidenza, salvo poi impiccarlo a testa in giù. Passando dall’osanna al crucifige, com’è accaduto a Craxi, a Monti, allo stesso Napolitano. Sicché basta con la ricerca del salvatore della Patria. Cerchiamo, piuttosto, un buon patriota.
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