CONFINDUSTRIA ORA INCIAMPA SUI CONTRATTI

PRIMA SFIDA ALLA LINEA DURA DI BONOMI

 

GIUSEPPE BOTTERO

 

A cinque mesi dall’elezione il presidente di Confindustria, Carlo Bonomi, si trova a fronteggiare la prima frattura. Lo strappo del mondo alimentare è il segno che la linea dura sui contratti, alla prova dei fatti, non sta reggendo e la lettera spedita ai sindacati da sette sigle del settore, un comparto che rappresenta l’8% del Pil italiano, è il timbro ufficiale sul cambio di rotta da parte di un pezzo importante del panorama industriale italiano. Un tema che oggi finirà sul tavolo del consiglio generale di viale dell’Astronomia. Anicav, Assolatte e Federvini e altre quattro associazioni chiedono «un equilibrio che tuteli lavoratori ed imprese» convinti che le trattative, nell’autunno più duro dal Dopoguerra, debbano ripartire. Ripartiranno: le sigle Fai, Flai e Uila hanno subito sospeso le agitazioni nelle aziende e l’incontro arriverà entro la prossima settimana. E pazienza se, per le imprese, potrebbe essere necessario cedere qualcosa su un terreno – quello dei ritocchi in busta paga in un momento di inflazione azzerata– che per il leader degli industriali, finora, è stato un tabù. È una crepa, vera. Allargata dal Covid che mette in crisi la siderurgia e la meccanica, costrette a fermarsi per mesi e alle prese con un export ai minimi, mentre il Food e la grande distribuzione stanno attraversando con meno difficoltà i mesi devastanti della pandemia. Eppure Bonomi, in sella da maggio, sul tema aumenti si è sempre mostrato irremovibile: «Vogliamo contratti rivoluzionari rispetto al vecchio scambio di inizio Novecento tra salari e orari». Ma la rivoluzione, sul campo, per ora è rimandata. La frattura nasce in estate, quando Unione Italiana Food, che rappresenta nomi pesanti come Barilla e Ferrero e multinazionali del calibro di Unilever, trova un pre-accordo contestato dai vertici della Confindustria. I minimi sono superiori a quanto previsto, Roma si infuria ma i toni del richiamo, considerati troppo duri, infastidiscono ancora di più le imprese. Le singole imprese si muovono, le associazioni anche et voilà, la linea dura sfuma. Ieri, dopo la firma di un importante accordo con Federlegno, che riguarda 150 mila lavoratori, dai sindacati è arrivato un appello: «Non è frammentando la rappresentanza che si fanno passi in avanti e si costruisce una visione d’insieme: da Federalimentare ci aspettiamo un impegno maggiore per recuperare un ruolo di coordinamento tra tutte le realtà produttive del settore». Ma a quel ruolo, al momento, la federazione sembra aver rinunciato. E adesso c’è chi teme per l’atteggiamento da tenere nella partita più importante, quella del rinnovo dei metalmeccanici. Sembra finita in un vicolo cieco. Tanto che, almeno al Nord, arrivano segnali di insofferenza: «Se lasciano fare a noi, cresciuti in fabbrica, l’intesa si trova». Tra le imprese cresce la sensazione che la politica degli attacchi non possa funzionare e che situazioni diverse vadano affrontate con politiche diverse. In molti non gradiscono le uscite troppo dure in un Paese sempre più in affanno, lacerato dalla pandemia. Sono problemi interni, ma si ripercuotono sulla vita in azienda. La ripresa è inceppata, un pezzo d’Italia corre e un’altra non ce la fa più. E dal basso arriva una richiesta: è il momento di aggregare, non di creare nuove fratture.

 

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