Con Madrid un conflitto che non si può ricucire.

DIBATTITO
Per capire ciò che sta succedendo oggi in Catalogna bisogna ricordare che nel 2010 il Tribunale Costituzionale (Tc) della Spagna ha deciso di svuotare lo Statuto di autonomia approvato nel 2006 dal Parlamento catalano, le Corti spagnole e i cittadini catalani con un referendum. Quello Statuto doveva aggiornare il testo approvato nel 1979, durante la transizione democratica, così come rinforzare le competenze, il riconoscimento e i finanziamenti del governo regionale. Il Partito popolare (Pp) si è opposto dal primo momento alla miglioria dell’autonomia catalana e ha usato la vicenda per logorare il governo socialista di Zapatero. I conservatori hanno fatto una campagna molto aggressiva in tutta la Spagna, chiedendo firme contro il nuovo Statuto e fomentando i luoghi comuni più negativi sui catalani. La fobia verso i catalani si è scatenata nei mezzi di comunicazione vicini alla destra. I socialisti hanno alla fine avallato il discorso centralista e intransigente del Pp. Nella società catalana è cresciuto un sentimento di disagio. Dal quel momento è successo qualcosa di insolito: molti catalani moderati si sono sentiti espulsi dalla Spagna e ingannati dai grandi partiti spagnoli. Hanno quindi abbracciato l’idea dell’indipendenza per garantire i diritti e gli interessi della Catalogna. Ha avuto anche influenza il rifiuto assoluto di Rajoy ad accordare un miglior finanziamento dell’autogoverno. Ed è curioso che l’indipendentismo è sempre stato, finora, una corrente minoritaria. I politici del catalanismo (sia di destra che di sinistra) hanno cercato dalla fine dell’Ottocento formule di tipo autonomista e federale per riformare la Spagna in un senso plurinazionale. La sentenza del Tc sullo Statuto è stata interpretata a Barcellona come la rottura arbitraria del patto tra la Catalogna e lo Stato che si era forgiato dopo la morte di Francisco Franco. Bisogna ricordare che la dittatura aveva soppresso l’autonomia, aveva proibito l’uso del catalano e aveva cercato di ridurre l’identità catalana a un semplice «patois». Da sette anni è cresciuto uno scollegamento mentale da parte di tanti catalani nei confronti dello Stato spagnolo. Questo scollegamento, che è alla base della grande mobilitazione indipendentista, non è un sentimento contro i singoli spagnoli, ma una profonda sfiducia verso il potere di Madrid e una necessità di collegare la Catalogna direttamente con l’Europa e il mondo globale. L’indipendentismo governa la «Generalitat», ha la maggioranza nel Parlamento regionale, possiede la centralità della società e dà forma ad ampi settori della classi medie dinamiche. Il suo successo si basa sulla costruzione di una narrazione sul «diritto a decidere». Il carattere civico, non etnico, del catalanismo radica il suo discorso nell’esercizio della democrazia e non nei messaggi identitari. Lo scopo principale dell’indipendentismo era organizzare un referendum d’accordo con il governo centrale, come quello che avevano celebrato gli scozzesi nel 2014. Rajoy non ha mai voluto parlarne, così come i socialisti. Perché il Pp e il Partito socialista operaio spagnolo (Psoe) si rifiutano? Perché dovrebbero prima riconoscere la Catalogna come una nazione (così avevano fatto il Regno Unito con la Scozia e il Canada con il Québec), cosa impensabile secondo la mentalità centralista che domina oggi le élite spagnole. E quindi l’indipendentismo catalano prova a fare qualcosa di insolito: un referendum contro il divieto espresso dello Stato. A Madrid si sono resi conto troppo tardi che questa vicenda non è uno scherzo. La sproporzionata repressione giudiziaria e della polizia in questi giorni ha avuto un effetto boomerang per Rajoy, perché accresce la mobilitazione indipendentista e genera molta più sfiducia verso lo Stato spagnolo. Qualsiasi sia il risultato, la Catalogna è già un altro Paese. *Editorialista del quotidiano «La Vanguardia» e professore dell’Università «Ramon Llull».
La Stampa
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