Ogni 18 dicembre l’UNESCO promuove la Giornata internazionale del migrante, istituita in questa data per ricordare l’adozione della Convenzione internazionale sulla protezione dei diritti di tutti i lavoratori migranti e dei membri delle loro famiglie, adottata a New York il 18 dicembre 1990.
La Convenzione è tuttora il primo strumento internazionale per la codifica dei diritti umani di lavoratori migranti (e delle loro famiglie): in essa sono contenute direttive che invitano gli Stati ad adeguare le normative interne alle vulnerabilità del migrante, promuovendo condizioni di vita e lavori dignitosi. Una Convenzione di tutto rispetto.
Ed ecco la prima notizia shock: l’Italia non l’ha ratificata. Quella stessa Italia da cui, nell’ultimo secolo, sono partiti 24 milioni di emigranti.
Seconda notizia shock: non è sola, in questa condizione indegna. Dei 193 Stati membri dell’ONU, solo 51 Paesi hanno apposto firma al documento: e tra questi nessuno Stato dell’Europa occidentale, del Nord America o dell’Australia.
È una non-decisione che cela una decisione molto precisa. È una non-presa di posizione che fa riflettere, e anche arrabbiare, a dire il vero. Non per la scontata osservazione che ormai chiunque sa portare, cioè che anche noi siamo stati migranti in passato, ma per la ben più forte certezza che torneremo a esserlo.
Nel saggio Libertà di migrare di Telmo Pievani e Valerio Calzolaio (Giulio Einaudi editore, 2016) si racconta che chiunque abiti oggi in Europa, come nel resto del mondo, ha origini africane risalenti a non più di 80.000-60.000 anni fa. E, calcolando che il genere Homo è presente sulla Terra da circa 2,6 milioni di anni, direi che la parentela, fra noi tutti, è innegabilmente stretta e recente. L’intera popolazione umana, che oggi ammonta a più di 7 miliardi di persone, discende da un unico gruppetto iniziale di esseri umani, nostri antenati, composto da poche decine di migliaia di individui. Il cerchio si stringe…
E se i numeri non piacciono, se la scienza, la storia, l’antropologia e l’evoluzionismo non soddisfano, nessun problema. Anche la religione, incredibilmente, è dalla nostra parte. Abramo è medesimo padre delle tre confessioni monoteiste: ebraismo, cristianesimo e islamismo. Avere lo stesso papà crea decisamente parentela.
La valle del Giordano e le coste del Mare Mediterraneo sono, senza dubbio alcuno, il crocevia migratorio umano più antico del mondo. Il “nostro” Mediterraneo, che in realtà è afro-euro-asiatico e pare piccolo ma forse così piccolo non è quando lo si deve attraversare su un gommone, in trecento, ammassati come bestie.
Nessuno, mai, lascerebbe la propria casa, in fretta e furia, senza bagagli, magari incinta, magari anziano, magari bambino, abbandonando affetti di una vita, lavoro (e quindi la fonte di reddito), per affrontare un viaggio di migliaia di chilometri, probabilmente a piedi, oppure su un barcone, stipato con altrettanti disperati, se non per il solo e unico motivo che, dove sta, la vita è un inferno.
E lo è per i più disparati motivi: perché la casa è andata distrutta (bombardamento? terremoto? uragano? desertificazione? sfratto?); perché il lavoro non esiste più; perché l’acqua potabile è finita; perché lo tsunami ha distrutto ogni cosa; perché il dittatore di turno sta decimando la popolazione.
Le chiamano migrazioni “forzate”. Eppure: quanto dev’essere immenso il coraggio del distacco?
Tra Aleppo (Siria) e Nickelsdorf (prima cittadina al confine austriaco) si contano esattamente 2554 chilometri. Duemilacinquecentocinquantaquattro. Ci sono famiglie, genitori con bambini e bambine, anziani, malati, che li hanno percorsi a piedi. In inverno. Imbattendosi nei blindati che la Bulgaria ha disposto al confine con la Macedonia, o nel muro che ha innalzato al confine con la Turchia; andando a sbattere contro la cinta che l’Ungheria ha costruito lungo la frontiera con la Serbia; o incappando nelle pattuglie notturne di poliziotti e cani nei boschi croati; o nel filo spinato e i manganelli della polizia ungherese… alla ricerca del “sogno europeo”. O solo in fuga da un incubo.
Alcune di queste bambine non sono arrivate mai. Sono morte di freddo o di fame lungo la strada. Altre, magari più in forze, magari più fortunate, sono arrivate e, una volta al confine, sono state rispedite a casa. Casa…
I siriani sono rifugiati, certo, è giusto che siano considerati tali. Lo status di rifugiato, sancito nel diritto internazionale dalla Convenzione di Ginevra (1951), è riconosciuto alle persone che «non possono tornare a casa perché sarebbe troppo pericoloso e hanno bisogno di trovare protezione altrove».
Per amor di trasparenza Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Arabia Saudita e Turchia appoggiano economicamente e militarmente le forze ribelli jihadiste; il governo di Damasco, invece, riceve sostegno da Russia e Iran, e in minor quota anche da Corea del Nord, Venezuela e Iraq.
Ergo, non tutti i migranti sono rifugiati (o profughi), ma di certo tutti i profughi sono migranti. Chi decide? La Questura, la Commissione territoriale sì, ma la domanda vorrebbe essere più ampia.
Tutti gli esseri umani che giornalmente sbarcano dall’Africa sulle nostre coste e isole, ̶ quelli che arrivano vivi, s’intende ̶ , sono migranti? Chiaramente sì. Sono individui che scelgono liberamente di viaggiare e spostarsi, e non sono «stati espulsi o fuggiti dal proprio Paese originario a causa di discriminazioni politiche/religiose/razziali/di nazionalità; o perché appartenenti ad una categoria sociale di persone perseguitate; o a causa di una guerra presente nel Paese»? La guerra civile in Sudan (la seconda) è durata 22 anni, ha causato 1,9 milioni di morti e mosso 4 milioni di sfollati. In Kenya l’attuale presidente in carica ha dovuto, nel 2015, rispondere al Tribunale penale internazionale dell’Aja di crimini contro l’umanità. Nel 2010 in Pakistan ci sono stati 10 milioni di evacuati per le inondazioni. E la Libia? Con un normale battello, che non esiste, il tempo di percorrenza da Tripoli a Lampedusa sarebbe lo stesso del traghetto Napoli-Palermo. Con l’inaspettato vantaggio di portare vivi i viaggiatori a destinazione. Ma, come scrive Telmo Pievani, «i vincitori scrivono quasi sempre la storia per tutti».
Deportazioni, pulizia etnica, stupro di massa, tortura sistematica, lavoro forzato… non valgono? E chi “semplicemente” povero, decide di partire? Tutti questi esseri umani non richiedono asilo, non vengono etichettati come refugees. Non valgono niente.
Esistono Paesi più importanti di altri nella bilancia mondiale? E, deduco, esistono popolazioni più importanti di altre? Chi possiede il passaporto americano (o britannico) può entrare senza visto in altri 147 Paesi, chi invece viene dalla Palestina solo in 28 Paesi. Come mai?
L’UNHCR ha contato 65,3 milioni di persone costrette alla fuga nel 2015. Significa che 1 persona su 113, oggi, è richiedente asilo, o sfollato interno o rifugiato. Ogni minuto, 24 persone nel mondo sono costrette a fuggire da casa propria. E poi ci sono coloro che vivono in tendopoli e campi “provvisori”, in attesa di non si sa cosa. Altri, ormai apolidi, senza più cittadinanza, non hanno diritto a istruzione, sanità, lavoro, voto.
Perché i diritti di esseri umani migranti che rispettano le regole di convivenza civile (nonostante le odissee per terra e per mare!) non sono garantiti come i diritti degli esseri umani con residenza fissa, che rispettano le medesime regole? Telmo Pievani scrive «La migrazione è un cambio permanente e di incerta durata, comunque epocale per la vita di un individuo. In particolar modo quando è costretta, forzata. Fuggire è uno dei più antichi e persistenti modi di migrare, un vitale comportamento emotivo-cognitivo, legato a una minaccia di sopravvivenza. La migrazione, tuttavia, non è la linea, più o meno retta, che unisce due punti. È un pezzo di storia evolutiva del singolo individuo, del gruppo, della specie. Un migrante sfida i confini e disorienta, talvolta li fa evolvere. Nel mondo esiste oggi libertà giuridica di migrazione per tutti. Non tutti lo sanno, molti non sempre lo ricordano, quasi mai chi lo sa lo dice». Salvaguardiamo la libertà di migrare per cercare una vita migliore, salvaguardiamo il diritto di restare a casa propria se lì si è felici, smettiamo di nascondere dietro false solidarietà internazionali interessi finanziari ed economici che portano a devastare vite, popolazioni, Paesi interi che inevitabilmente, se sopravvivono, cercano salvezza altrove. Non dimentichiamo di essere nati, per casualità assoluta e immeritata, in una fetta minuscola e irrisoria di mondo molto più fortunata del restante pianeta e questo dev’essere punto di partenza e non d’arrivo. Chiudere le frontiere non risolve i problemi, e questo è forse l’unico insegnamento del terrorismo, ahimè.
Imparare le lingue del mondo / imparare a parlare / a passare tra la pioggia e la polvere / tra la terra ed il mare / che viaggiare non è solamente partire e tornare / ma imparare le lingue degli altri / imparare ad amare (Francesco De Gregori)